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Arrabbiati, insicuri e delusi dalla politica: la fotografia degli italiani a fine 2018

L'ottimismo è un lontano ricordo, la ripartenza non c'è stata e il rancore dilaga:questo è quanto emerge dal Rapporto 2018 del Censis sulla situazione sociale dell'Italia: “Siamo diventati intolleranti fino alla cattiveria”

Foto di repertorio Ansa

Nel 2018 la tanto attesa ripresa economica non è arrivata, mantenendo il popolo italiano in questo limbo a metà tra la crisi e una ripartenza che stenta a mettersi in moto. Una situazione che nel corso del tempo ha trasformato l'italiano in quello che vediamo al giorno d'oggi: arrabbiato, senza fiducia nella politica, diffidente verso ciò che non conosce, deluso dalla condizione economica in cui vive, che spesso lo porta a dover rinunciare anche a fattori importanti come la salute. E' una fotografia in chiaroscuro quella che emerge dal 52esimo Rapporto Censis presentato oggi, venerdì 7 dicembre, e che segnala come "nel sottofondo delle dinamiche collettive" si vede una "efficacia dei processi in atto" che "conferma l'antica verità che solo le risoluzioni delle crisi inducono uno sviluppo".

Quella descritta nel 'rapporto 2018 sulla situazione sociale del Paese' è una Italia - spiega il Censis - alle prese con "un rabbuiarsi dell'orizzonte di ottimismo" e nella quale si accentuano "lo squilibrio dei processi d'inclusione dovuto alla contraddittoria gestione dei flussi d'immigrazione". L'insicurezza sembrerebbe la parola chiave che descrive la nostra società, dove l'assistenza viene "interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato", dove le istituzioni formative sono alle prese con "un vistoso calo di reputazione", dove si accentua "il cedimento rovinoso della macchina burocratica pubblica e della digitalizzazione dell'azione amministrativa".

In questo scenario, insomma, secondo il Censis "verrebbe da pensare che tutto arretra" con gli italiani "incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro". E invece - spiega l'istituto - magari lontane dalle luci della ribalta ci sono "lente e silenziose trasformazioni, movimenti obliqui" che "preparano il terreno di un nuovo modello di perseguimento del benessere e della qualità della vita".

L'Italia, registra, ad esempio, "il consolidarsi di una positiva bilancia commerciale della tecnologia, il primato nella economia circolare, l'affermarsi dei tanti soggetti dell'economia esplorativa, il prepotente e drammatico ritorno di attenzione sull'economia della manutenzione". E a livello intermedio - aggiunge - "si rinnova anche il ruolo della rappresentanza" anche se in questi ecosistema "ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale". Il vero nodo - sembra essere l'indicazione che emerge dal rapporto - è che in questo sistema sociale, "attraversato da tensione, paura, rancore" si "guarda al sovrano autoritario" mentre "il popolo si ricostituisce nell'idea di una nazione sovrana supponendo, con un'interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell'ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale".

Il Censis punta il dito contro la "politica dell'annuncio" quando a quest'ultimo manca "la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto". Ma se "ignorare il cambiamento sociale è stato l'errore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio, l'errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso, diseguale". Di qui, l'invito a "un dibattito serio sull'orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi". Perché all'Italia di oggi, conclude il Censis "basterebbe una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi".

Italiani arrabbiati

Soltanto un italiano su cinque ha un atteggiamento positivo sul momento che vive; per il resto, prevalgono rabbia, disorientamento, pessimismo. E' questo lo stato d'animo degli italiani fotografato dal Censis: su 100 italiani, 30 si dicono "arrabbiati perché troppe cose non vanno bene e nessuno fa niente per cambiarle"; 28 "disorientati" in quanto ammettono di "non capire cosa stia accadendo"; 21 vedono "negativo: le cose andranno sempre peggio"; e soltanto altri 21 guardano invece alla realtà con uno stato d'animo "positivo" in quanto "viviamo un'epoca di grandi cambiamenti" e riferiscono di "avere fiducia nel futuro".

Una indiretta conferma arriva da un altro dato presente nel Rapporto Censis: due italiani su tre sono convinti che "non ci sia nessuno a difendere interessi e identità" e dunque sono costretti a farlo "da soli". Se il 64% la pensa così, la percentuale si impenna a quota 72 fra coloro che hanno un basso titolo di studio, a 71 per chi ha redditi bassi, a 67 fra i residenti al Sud e nelle due Isole, a 65 fra le donne.

Non c'è fiducia nella politica

E qual è il rapporto con la politica? Per metà degli italiani, i politici sono tutti uguali; e per oltre la metà, in Italia niente cambia. A esprimere quella che un tempo si sarebbe definita come una considerazione 'qualunquista' - ovvero che "i politici sono tutti uguali" - è il 49,5% degli italiani e la percentuale supera la metà di loro nel caso di persone con reddito basso (54,8%), donne (52,9%), giovani tra i 18 e i 34 anni (52,5%), chi ha un basso titolo di studio (52,2%) e i meridionali (50,6%).

Quanto ai pessimisti per i quali "le cose in Italia non stanno cambiando", in media il 56,3% degli italiani, in testa risultano essere di gran lunga gli studenti (73,1%) seguiti a distanza dagli anziani ultra 65enni (62,2%), dai residenti nel Nord-Ovest (60,7%), dalle donne (60,2%), dai laureati (60,2%) e da coloro che percepiscono redditi medio-bassi (58,1%).

Il Censis definisce nel suo Rapporto questa fase della missione della politica "dall'assalto al cielo alla difesa delle trincee", osservando che "l'evoluzione della partecipazione e del consenso elettorale racconta da un lato il disimpegno degli elettori come esito del distacco dalla politica e dall'altro la frammentazione del consenso conferito ai principali partiti in campo, che significa in sintesi il consolidamento di un gap tra politica e società oramai fisiologico".

In precedenza, "la politica non rifletteva umori ed emozioni come un semplice specchio, ma riusciva a discernere, selezionare, combinare; in una parola: a mediare". Mentre oggi "sembra finito quel gioco combinatorio di identità e interessi che si proiettava nella domanda politica, anche perché sono sempre più sfumati i profili identitari dei diversi gruppi sociali e le relative 'costituency' degli interessi".

A questo punto, spiega il Censis, "per sfuggire al rischio dell'indistinzione, i politici rinunciano a ogni pratica mediatoria, radicalizzando almeno verbalmente quel che può distinguerli o renderli visibili e più duraturi nel ruminare impietoso del circo mediatico". Così, "la politica rilancia ogni umore ed emozione estremi che circolano in modo più o meno sommerso nella società o fragorosamente visibili sui social network". E questo è "il meccanismo perverso della politica che riflette la società e ne rilancia le voci più assordanti e virulente".

Il sovranismo psichico

"Dopo il rancore, la cattiveria": titola così il Censis il capitolo del suo Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese dedicato alle radice del 'sovranismo psichico', sottolineando che "gli italiani sono diventati nel quotidiano intolleranti fino alla cattiveria" e quindi "la politica e le sue retoriche rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo che si è installato nella testa e nei comportamenti degli italiani", che dimostrano una "consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno e più ancora che non cambieranno".

Per uscire da questa situazione, "gli italiani sono ormai pronti a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d'ora si era visto" e allora mostrano una "disponibilità pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall'esito incerto, non importa se l'altrove è un territorio indefinito e inesplorato, non importa se per arrivarci si rende necessario forzare, fino a romperli, gli schemi canonici politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche".

Si tratta di "una reazione pre-politica, molto più lucida di quanto in genere si sia pronti a riconoscere, perché viene da lontano e ha profonde radici sociali che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico". Alimentato da alcune "disillusioni": una ripresa rimasta inchiodata, un pil che ristagna, i consumi che non ripartono, la produzione industriale che flette, le retribuzioni che restano basse. Così, "l'Europa non è più un ponte verso il mondo né la zattera della salvezza" e "il Mediterraneo non è più la culla della civiltà ma ritorna a essere confine, un fossato invalicabile".

Matrimoni in calo

Ci si sposa sempre di meno e ci si lascia sempre di più: questo è il tratto distintivo che segna le trasformazioni delle forme di convivenza nel nostro Paese. In dieci anni, dal 2006 al 2016, il numero totale dei matrimoni è passato da 245.992 a 203.258, con una riduzione del 17,4%, anche se dal 2015 al 2016 si è registrato un aumento di oltre 8.800 matrimoni (+4,6%). A diminuire sono soprattutto i matrimoni religiosi (da 162.364 a 107.873, ovvero il 33,6% in meno), mentre quelli civili sono aumentati da 83.628 a 95.385 (+14,1%), fino a rappresentare il 46,9% dei matrimoni complessivi.

Il matrimonio non piace soprattutto ai giovani; si arriva sempre più tardi alla scelta di sposarsi e cresce il numero di celibi e nubili tra gli under 35: al 1 gennaio 2018 nella fascia di età 25-34 anni, i celibi sono l'80,6% del totale, le nubili il 64,9%. L'età media al primo matrimonio ha raggiunto i 34,9 anni per gli uomini e i 31,9 per le donne, con un aumento rispetto al 2006 di 2,5 e 2,3 rispettivamente. La propensione alle prime nozze diminuisce per entrambi i sessi: nel 2016 si sono registrati 449,6 primi matrimoni per 1000 uomini e 496,4 per 1000 donne, a fronte dei 536,2 e 594,3 rispettivamente del 2008.

Questo, oltre che ai dati strutturali legati alla composizione della popolazione, si deve anche alla tendenza generalizzata a rinviare tutte le tappe tradizionali dell'ingresso nella vita adulta: dal lasciare la casa dei genitori, all'ingresso nel mondo del lavoro, fino all'appuntamento con il matrimonio.

Si allarga la forbice sociale

Emergono segnali di allargamento della forbice sociale nei bilanci delle famiglie. Il Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese mostra come negli ultimi cinque anni la capacità di spesa delle famiglie italiane ha mostrato un progresso. La quota che dichiara un aumento della capacità di spesa rispetto all'anno precedente ha raggiunto il 31,9% del totale. Quelle che invece hanno visto un peggioramento sono oggi il 15%. Anche con riferimento alle attese per il futuro si conferma una tendenza alla divaricazione delle famiglie.

Nel 2018 gli ottimisti si attestano al 42,2% del totale, circa 12 punti in più rispetto al 2013. Si registra però una risalita dei pessimisti (dal 22,4% del 2015 al 23,2% del 2016, fino al 26,8% del 2018). Con riferimento al futuro del Paese, invece, i pessimisti (44,5%) superano di gran lunga gli ottimisti (18,8%). Paura, inquietudine, preoccupazione riguardano il Paese e i suoi scenari evolutivi molto più che la propria situazione familiare.

Il rapporto con l'Europa

Dei 28 paesi dell'Unione Europea, l'Italia è il paese meno convinto che l'appartenenza all'Ue abbia portato benefici. Un dato inferiore anche a quello della Gran Bretagna prossimo alla Brexit. Soltanto il 42% degli italiani ritiene che far parte dell'Unione Europea sia "una buona cosa", rispetto alla media del 62% degli altri paesi membri. A riportarlo è il 52esimo rapporto del Censis, che ha elaborato dati dell'Eurobarometro.

Per una importante fetta di italiani - il 37% - far parte dell'Unione Europea "è una cosa né buona, né cattiva" (25% media Ue), mentre per il 18% "non è una buona cosa" (11% media Ue). Il 3% non sa (2% media europea).

Se poi si guarda alla "valutazione positiva sul fatto che il proprio paese abbia tratto benefici dall'appartenenza all'Unione Europea", l'Italia è l'unico stato membro sotto la soglia del 50%. Nel nostro paese solo il 43% esprime una valutazione positiva. Un dato che appare rilevante dato che l'Italia è sotto la Grecia (54%) che pur ha sofferto delle misure di austerità imposte dalla trojka, e il Regno Unito (60%) dove una ristretta maggioranza ha votato nel 2016 a favore dell'uscita dall'Ue. Tutti gli altri paesi registrano una valutazione positiva di almeno il 60%, con una media del 68%. Picchi particolarmente positivi si hanno per l'Irlanda (92%), Malta (91%), Lituania ed Estonia (88%) e Polonia (87%).

Significativo appare anche il fatto che gli italiani siano convinti di contare poco fra i 28 paesi dell'Unione. Solo 29% pensa che il nostro paese "conti qualcosa" nell'Ue e dopo di noi c'è soltanto la Grecia (20%). La media europea è del 60% con un picco in Svezia (91%), seguita alla pari da Germania e Danimarca (89%). Se infine si guarda alla partecipazione alle ultime elezioni europee (2014), gli italiani risultano invece al 57,2%, più virtuosi della media degli altri paesi che si ferma al 42,6%.

Siamo tutti divi

Nell'era mediatica siamo tutti divi e viviamo in una società che non ha più miti né eroi. Una realtà in cui, quelli che l'istituto chiama "dispositivi della disintermediazione digitale" continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record in termini di diffusione e di moltiplicazione degli impieghi.

"Oggi - scrive il Censis - il 78,4% degli italiani utilizza internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all'86,3% e all'85,1%".

I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% in termini reali nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per i telefoni è più che triplicata nel decennio (+221,6%): nell'ultimo anno si sono spesi 23,7 miliardi di euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati.

"E abbiamo finito per sacrificare ogni mito, divo ed eroe sull'altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell'io. Nell'era biomediatica - scrive il Censis nel Rapporto - in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più".

La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente "fondamentale" per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani).Ma, allo stesso tempo, un quarto degli italiani (il 24,6%) afferma che oggi i divi semplicemente non esistono più. E comunque appena uno su 10 dichiara di ispirarsi ad essi come miti da prendere a modello nella propria vita (il 9,9%). In più, il 41,8% crede di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande (il 52,3% tra i giovani).

L'auto? Nel 2050 sarà un lusso

Ancora oggi l'89,8% delle auto immatricolate è alimentato a benzina o a gasolio. Ma in futuro - secondo un terzo degli italiani - l'auto (verosimilmente elettrica) sarà usata solo dalle famiglie benestanti. E' uno scenario disegnato nel Rapporto del Censis che affronta anche il tema della trasformazione dei comportamenti alla luce della transizione energetica.

La produzione di energia elettrica nei parchi fotovoltaici viene guardata con simpatia dalla quasi totalità degli italiani, se si esclude quel 16,7% convinto che qualsiasi impianto sia da osteggiare se operante nel proprio territorio. In merito agli scenari energetici del futuro, il 57,6% è convinto che grazie all'innovazione tecnologica avremo finalmente tutta l'energia di cui abbiamo bisogno senza impatti significativi sull'ambiente.

Il 52,3% pensa invece che l'energia sarà oggetto di razionamento e i costi d'accesso diventeranno molto elevati. E - alla luce di questo sviluppo - il 36,4% ritiene molto probabile che nel 2050 il possesso di un'auto sarà garantito solo alle fasce benestanti della popolazione, conclude il Censis.

Ritardo nella sharing economy

Nella sharing economy l'Italia è ancora in ritardo, soprattutto rispetto a Paesi come la Germania, ma le percentuali di italiani coinvolti in qualche modo in azioni di sharing, di noleggio sostitutivo o di acquisto di prodotti ricondizionati non sono trascurabili (il 19%, il 14% e il 22% rispettivamente). Nel 2017 il car sharing ha raggiunto 1.310.000 iscritti e 7.030.000 noleggi. Significativa anche la crescita delle biciclette in condivisione, che sfiorano oggi le 40.000 unità con 265 Comuni coinvolti. Il 38,5% degli italiani è disposto a sperimentare queste nuove formule di utilizzo del mezzo privato. Nel 2005 i giovani di 18-29 anni rappresentavano il 13,4% dell'immatricolato. Nel 2016 sono scesi al 7,9%. Per contro gli ultrasessantacinquenni, che coprivano il 10% delle vendite nel 2005, oggi si attestano al 17,6%. E supera il 50% la quota di giovani di 18-34 anni che manifesta interesse verso il car sharing.

 

La sanità

Il Ssn non è uguale per tutti. Così la pensano gli italiani, che alle prese con la sanità si sentono "diversi e soli": più della metà (54,7%) pensa che in Italia le persone non abbiano le stesse opportunità di diagnosi e cure.

Ne è convinto il 58,3% dei residenti al Nord-Est, il 53,9% al Sud, il 54,1% al Centro e il 53,3% al Nord-Ovest. Addirittura ci sono oltre 39 punti percentuali di differenza - evidenzia il Censis - nelle quote di soddisfatti tra il Sud e le isole e il Nord-Est, che registra il più alto livello di soddisfazione tra le macroaree territoriali. Emblematici sono i dati sul grado di soddisfazione rispetto al servizio sanitario della propria Regione: il valore medio nazionale del 62,3% oscilla tra il 77% al Nord-Ovest, il 79,4% al Nord-Est, il 61,8% al Centro e il 40,6% al Sud e nelle isole.

Secondo il Censis, "è una convinzione diffusa che il rapporto dei cittadini con il servizio sanitario sia fortemente differenziato a causa dell'incidenza di una serie di variabili: dalla territorialità dell'offerta alla condizione socio - economica, all'età delle persone. Il difficile accesso alla sanità genera costi aggiuntivi, con la conseguente corsa a comportamenti opportunistici e una crescente sensazione di disuguaglianze e ingiustizie, con la convinzione che ognuno deve pensare a se stesso". Non brilla il capitolo Welfare. Il 52,7% degli italiani non sa a chi rivolgersi in caso di un problema di questo tipo, il 44,9% si è rivolto a fa miliari e amici che già avevano affrontato il problema, il 27,1% ha fatto ricorso all'aiuto pagato di società specializzate, il 24,8% ha rinunciato a trovare una soluzione perché non è riuscito a capire a chi rivolgersi. Il 48,5% non è in grado di affrontare autonomamente le difficoltà.

Ben 49,4 milioni di italiani soffrono di piccoli disturbi, come mal di schiena, mal di testa e altri, che finiscono con il condizionare la funzionalità e la qualità della vita quotidiana. Contro questi malanni il 73,4% si è detto convinto che sia possibile curarsi da solo, con un incremento del 9,3% rispetto al 2007. E' quanto emerge dal Rapporto Censis, secondo cui "nella tutela della salute e nel rapporto con la sanità è sempre più diffuso il principio dell'autoregolazione della salute, nel solco del sapere esperto". In questi casi, cioè, gli italiani fanno da sé, senza eccedere con comportamenti che possono mettere a rischio la salute. Il 56,5% ritiene che sia possibile curarsi autonomamente perché ognuno conosce i propri piccoli disturbi e le risposte adeguate, il 16,9% perché è il modo più rapido. Ma decisivo è il rapporto con i "saperi esperti": nonostante la crescita del web (28%), i principali canali informativi rimangono il medico di medicina generale (53,5%), il farmacista (32,2%) e lo specialista (17,7%).

L'esempio evidenziato dal Censis è il ricorso ai farmaci di automedicazione: infatti, è la quasi totalità degli italiani a curarsi utilizzando farmaci senza obbligo di ricetta, acquistati liberamente in farmacia. Con conseguenze rilevanti per la qualità della vita delle persone e per la funzionalità dei lavoratori. Sono 17,6 milioni gli italiani che l'ultima volta che hanno avuto un piccolo disturbo hanno preso un farmaco da banco: una scelta che si è rivelata decisiva - rileva il Censis - perché hanno potuto continuare a svolgere le attività che altrimenti avrebbero dovuto lasciare. Sono 15,4 milioni i lavoratori che hanno continuato a lavorare grazie all'effetto del farmaci di banco in presenza di piccoli disturbi.


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