Attualità

Cari talk show, abbiamo un grosso problema

Massimo Giletti in collegamento da Mosca con Marija Zacharova (a destra)

"Se qualcuno dice che piove e un'altra persona dice che non piove, il compito del giornalista non è di citarli entrambi. Il compito del giornalista è quello di aprire la finestra, guardare fuori e dire qual è la verità". Così Jonathan Foster, professore dell'Università di Sheffield, sintetizzava in modo impeccabile quale dovrebbe essere la stella polare di ogni giornalista o organo informativo. Essere imparziali non vuol dire dare voce a tutti, ma provare a raccontare la realtà dei fatti e separarla dalle opinioni (che ovviamente, nel mondo giornalistico, continuano ad avere piena legittimità). Non sempre ci si riesce. È fisiologico. Umano. Ma a guardare i talk show italiani - o almeno la maggior parte di essi - sembra che l'aspirazione di cercare la verità, per quanto parziale o complessa possa essere, sia stata quasi definitivamente accantonata.

Quanto è successo ieri a "Non è l'Arena", su La7 (ci arriveremo tra poco), non ha fatto altro che certificare la crisi del talk italico, o meglio la sua trasformazione in un format che ormai è puro infotainment. Il problema dunque ha radici lontane, ma col Covid prima e la guerra in Ucraina poi è diventato via via più evidente. Andiamo al punto. L'inghippo nasce dal fatto che questi programmi di "approfondimento" si basano su un'idea di informazione binaria. Il copione prevede lo scontro di due o più ospiti (meglio se litigiosi) che sostengono tesi contrapposte, con la variante dell'intervista-esclusiva al personaggio controverso di turno.

Il fatto che in questo meccanismo ci fosse qualcosa che non va è diventato chiaro già con la pandemia quando sedicenti esperti e giornalisti "no vax" hanno iniziato ad affollare gli studi televisivi per dare voce a un punto di vista diametralmente opposto a quello dei "vax". Non parliamo ovviamente di chi ha criticato legittimamente i governi di Conte e Draghi sulla gestione della pandemia, ma di chi ha potuto diffondere in tv tesi antiscientifiche spacciandole per verità alternative con pari dignità rispetto a quelle "ufficiali". C'era proprio bisogno di fare un simile regalo ai complottisti? Forse no.

Di fronte alle pur blande polemiche i conduttori si sono difesi adducendo il pretesto della "libertà di espressione" e del "diritto di parola", dimentichi che anche in una democrazia liberale ci sono dei limiti a ciò che si può affermare e che il compito di un giornalista non può essere solo quello di dare il microfono a chiunque senta l'urgenza di dire qualcosa o peggio di gonfiare il proprio ego (oltre che qualche volta il portafogli). Che senso ha mettere un ciarlatano sullo stesso piano di uno scienziato? Qual è il beneficio che ne deriva all'informazione e alla democrazia?

La guerra in Ucraina ha reso questo meccanismo forse anche più manifesto. Lo spazio concesso agli ospiti incaricati di recitare la parte dei bastian contrari, che siano "filorussi" o molto più spesso semplicemente anti-occidentali, è sembrato (almeno a chi scrive) fin da subito eccessivo, più una concessione alla dittatura dell'audience che un mezzo necessario per capire "le ragioni dell'altro" o se volete, altra frase che si sente spesso, "le ragioni profonde della guerra". Col passare dei mesi poi il profluvio di mezze verità, post-verità o menzogne accertate sull'aggressione russa è aumentato esponenzialmente, di pari passo con il disinteresse dell'opinione pubblica nei confronti della guerra. Anche qui bisogna capirsi: non si tratta di censurare opinioni scomode, ma di evitare di farsi megafono di informazioni false. Qual è il senso di invitare chi nega i massacri compiuti a Bucha o vuole propalarci la fake news dei laboratori biochimici sul territorio ucraino controllati dagli Usa?  

L'intervista a Marija Zacharova

Arriviamo così all'ultima puntata di "Non è l'Arena" che ha visto il conduttore Massimo Giletti, in diretta da Mosca, intervistare via Skype Marija Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Com'era ampiamente prevedibile Zacharova si è dimostrata tutto fuorché aperta al dialogo né tanto meno disponibile all'autocritica, presentando anzi la Russia come una forza di pace contrapposta tanto agli Usa quanto ai perfidi Stati dell'Unione europea che (testuale) "negli ultimi 20 o 30 anni hanno annientato milioni di persone innocenti" (affermazione che nessuno si è incaricato di smentire).

Quanto più Giletti tentava di trovare un appiglio, un punto di incontro ("l'Occidente ha avuto le sue colpe", "gli accordi di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione", e ancora: "noi italiani siamo gli unici in Europa a far parlare personaggi importanti come Solovyev"), tanto più l'interlocutrice si mostrava sprezzante arrivando al punto di deridere lo stesso giornalista ("dice cose che mi sembrano molto semplificate, i bambini parlano così", oppure "sembra arrivato una settimana fa sul pianeta terra"). L'impressione alla fine è stata quella di un lungo comizio, al termine del quale il direttore di Libero Alessandro Sallusti ha deciso di abbandonare la trasmissione in polemica con quello che ha definito un "asservimento totale alla peggiore propaganda che ci possa essere", mentre il conduttore poco dopo ha avuto un malore (a lui vanno i nostri auguri di pronta guarigione).

I talk show oggi fanno informazione?

"Abbiamo gli anticorpi, l'intelligenza per smascherare ogni parola, ogni bugia e ogni artificio retorico ridicolo che questa signora ci ha propinato" è stato invece il commento a caldo di Myrta Merlino, a sua volte conduttrice del talk "l'Aria che tira". Qualche dubbio è lecito averlo. Facciamoci una domanda: quanto spazio nelle trasmissioni di approfondimento viene dedicato alla verifica dei fatti? La risposta è: molto poco o comunque non abbastanza. Gli stessi giornali hanno ormai rinunciato a passare al setaccio le castronerie dette in tv o sui social, comprese quelle pronunciate ieri da Zacharova che pure sono parecchie. L'impresa sarebbe improba per qualunque redazione.

Ciò che non si capisce però (o forse si capisce benissimo) è quale sia il senso di invitare chi evoca complotti, contesta dati validati da tutta la comunità scientifica o in questo caso ripete a pappagallo le tesi del Cremlino. È davvero un arricchimento per l'opinione pubblica ascoltare l'altra campana, anche quando questa campana suona palesemente stonata? E ancora, allargando lo sguardo: siamo sicuri che un dibattito in cui le opinioni sono constantemente polarizzate sia il modo più corretto per informare i telespettatori? Se le domande suonano retoriche non è un caso. 


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