Cronaca

Sardegna, la lotta contro le servitù militari riprende quota: "A Foras"

Più del 60 per cento delle servitù militari italiane è in Sardegna. I tre più grandi poligoni d'Europa sono sull'isola. "A Foras" ("Fuori") è un’assemblea di comitati e associazioni. Li abbiamo intervistati. I danni ambientali, i tentennamenti del mondo politico, il "ricatto" occupazionale, i limiti dell'assistenzialismo, le bonifiche difficili: "È importante continuare a parlare di basi militari nelle città, nelle scuole e nelle università. C'è tanto lavoro da fare"

Non "solo" una nuova manifestazione, ma un'intera giornata di informazione, arte e musica per continuare la lotta contro le servitù militari in Sardegna.

A Foras ("Fuori"), un’assemblea che è nata il 2 giugno del 2016 a Bauladu, composta da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che si oppongono "all’occupazione militare della Sardegna", ha organizzato per venerdì 2 giugno 2017 una giornata nella quale "il popolo sardo lancia un grido contro quello stesso Stato che ha imposto unilateralmente il 66 per cento di servitù militari dell’intero territorio italiano sulla Sardegna". 

I numeri parlano chiaro: più del 60 per cento delle servitù militari dell'intero territorio nazionale è ubicato nell'isola. Una sproporzione che non può che sorprendere. Fra servitù di terra e aree marine interdette alla navigazione ed alla attività civile la Sardegna si attesta intorno ai 35 mila ettari, senza considerare gli spazi aerei interdetti. E i tre più grandi poligoni d'Europa sono in terra sarda. Poligoni sperimentali, nei quali si spara terra-mare, aria-terra e mare-terra, dove si svolgono possenti esercitazioni (anche in affitto) e si mette in mostra il made in Italy dell'industria bellica. 

Nei mesi scorsi l’Assemblea di A Foras ha promosso diverse iniziative, dalle manifestazioni presso i poligoni di Capo Frasca (23 novembre 2016) e Quirra (28 aprile scorso), alle presentazioni del dossier sul Poligono di Quirra, fino alle assemblee informative nelle piazze, nei paesi, nelle città, nelle università e soprattutto nelle scuole.

"La giornata del 2 giugno - spiegano da A Foras - si svolgerà all’indomani dell’ennesima mega esercitazione imposta dall’alto e che questa volta riguarda le acque del sud Sardegna: “Mare aperto 2017”. Il pericolosissimo precedente creato da questa esercitazione sta nell’appropriarsi di ulteriori specchi d’acqua, non soggetti a servitù durante l’anno. Non solo ogni anno la Sardegna subisce lo scippo di oltre 35 mila ettari di terra di proprietà del demanio militare, ma con l’operazione “Mare aperto”, nell’assoluto silenzio del governo regionale, si è verificata un’ulteriore usurpazione della nostra isola, che è a disposizione per i giochi di guerra di eserciti di tutto il mondo".

Il 2 giugno a Cagliari si svolgerà "A Foras Fest, Die contra a s'occupatzione militare", organizzato da "A Foras". Li abbiamo intervistati.

Quello che a una prima analisi anche superficiale sorprende è la capillarità della presenza di poligoni militari e basi più o meno segrete sull'isola, da Nord a Sud, da Est a Ovest. La maggior parte degli italiani non ha coscienza della dimensione di questo fenomeno, siete d'accordo?

Purtroppo sì, e agli italiani dobbiamo anche aggiungere buona parte dei sardi. Si pensi che di recente, a un'assemblea di istituto in una scuola di Olbia dove abbiamo parlato di basi militari, la maggior parte degli studenti non era a conoscenza del fatto che la Sardegna ospiti i due terzi del demanio militare italiano. Per questo è importante continuare a parlare di basi militari nelle scuole, nelle università e in tutti i centri dell'isola, oltre che in Italia. A tal proposito, dobbiamo comunque ricordare che nell'ultimo anno siamo stati presenti in diverse città italiane (tra le quali Roma, Firenze, Genova, Bari, Napoli, Torino), dove siamo stati invitati per parlare dell'occupazione militare della Sardegna. Inoltre, in occasione delle ultime manifestazioni (Capo Frasca a novembre e Quirra ad aprile), sempre in Italia non sono mancate delle iniziative di solidarietà, come un recente sit in a Milano. Dunque, se da una parte il lavoro di informazione e sensibilizzazione è ancora tanto, dall'altra la voglia di saperne di più e la solidarietà dall'esterno non mancano.

Il presidente della Regione Francesco Pigliaru sostiene che "sulla presenza militare in Sardegna la Regione ha un obiettivo molto chiaro, il riequilibrio dei gravami, che stiamo perseguendo attraverso un confronto che a tratti è anche forte e difficile, come è naturale accada su argomenti di cui si discute da oltre trent'anni". Si parla di primi "risultati concreti", facendo riferimento alla sospensione delle esercitazioni nei Poligoni per la prima volta nel periodo che va dal primo giugno al 30 settembre e il diritto all'indennizzo per i pescatori di Capo Frasca, atteso da 25 anni". C'è davvero "dall'alto" la volontà di cambiare radicalmente il modo di affrontare la questione servitù militari?

Assolutamente no. Qualche giorno in più di sospensione non ci pare affatto un cambiamento radicale, soprattutto se accompagnato dall'aumento della superficie territoriale gravata da servitù e dagli orari delle esercitazioni. Ci riferiamo alla recente “Mare aperto 2017”, nell'ambito della quale sono stati occupati ulteriori specchi d'acqua non soggetti a servitù durante l'anno, creando tra l'altro un pericoloso precedente. Inoltre, sempre durante questa imponente esercitazione, è aumentato l'orario dei bombardamenti a Capo Frasca, esteso fino alle 23:00 (di norma finiscono alle 17:30). Per quanto riguarda i recenti indennizzi a Capo Frasca - l'altro grande “successo” tanto sbandierato da questa giunta (oltre che da alcuni parlamentari sardi)- crediamo che l'unico obiettivo perseguibile da chi vuole davvero cambiare radicalmente il modo di affrontare la questione servitù militari debba essere la chiusura della base, seguita dalla sua bonifica. Solo in questo modo i pescatori del luogo saranno  veramente compensati dal danno subito in tutti questi anni e potranno continuare la loro attività in futuro. Al contrario, il ricorso agli indennizzi aggira una delle principali contraddizioni della convivenza tra attività civili e militari: la sostenibilità dei bombardamenti a terra e a mare. Quanto ancora sopravvivrà l'ecosistema marino alle continue esercitazioni? Anche aumentando a 5 o 6 mesi il periodo di sospensione, quanti danni causa anche solo un giorno di bombardamenti? La fauna marina convive tranquillamente con le esercitazioni o il volume di pesci è diminuito (e diminuirà negli anni)? Ci piacerebbe porre queste domande ai difensori degli indennizzi.

Il Ministro delle Finanze Padoan ha firmato il decreto che quantifica i parametri per l'erogazione del contributo ai Comuni maggiormente oberati da servitù militari. Non c'è il rischio che misure economiche di questo tipo servano a mantenere ancora a lungo lo "status quo" senza che vengano nemmeno poste le basi per un reale cambiamento?

Questo rischio rappresenta l'altra grave conseguenza del meccanismo degli indennizzi: l'assistenzialismo. Anziché mettere le comunità locali nelle condizioni di valorizzare le proprie risorse, assistiamo a uno Stato che prima occupa e devasta questi territori, impedendo lo sviluppo di pesca, turismo, oltre che la difesa dell'ambiente, e poi elargisce compensazioni ai pescatori (per non lavorare) e ai comuni (da investire in “infrastrutture e servizi sociali”). Inoltre il meccanismo degli indennizzi porta gioco forza anche a un'accettazione delle servitù militari e, specie in un periodo di crisi come quello attuale, i contributi non sono più percepiti dalla popolazione come un “riconoscimento del danno”, ma come una vera e propria fonte di reddito (e quindi valutati in maniera positiva).

I cittadini sardi hanno mai ricevuto adeguata e completa informazione dalle istituzioni sul tema della salute pubblica e dei rischi ambientali collegati alla presenza militare sull'isola o il "peso" di tutta l'informazione sul tema è ancora sulle spalle di comitati e volenterosi cittadini?

Ciò che percepiamo è una grave assenza di ricerche e successive campagne informative istituzionali a tal proposito. Un esempio su tutti: l’assenza del registro tumori sardo, uno strumento richiesto non solo dal movimento contro l’occupazione militare, ma in generale anche da quello ambientalista, ecologista e contro la presenza di industrie che inquinano la nostra terra. Se si esclude la tristemente famosa indagine delle ASL di Cagliari e Lanusei sul Poligono di Quirra del 2011 (dalla quale sono emersi dati allarmanti su malformazioni e malattie in quel territorio), in questi ultimi anni sono mancati non solo l’informazione, ma anche i dati concreti. Ci verrebbe da dire che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: perché mai un’istituzione come la Regione, che non osteggia la presenza militare, che difende l’industria pesante e gli inceneritori dovrebbe fornire dati che in qualche modo descrivono la pericolosità di queste attività?

Coloro che si oppongono alla dismissione delle basi utilizzano come argomento (o dovremmo dire "ricatto"?) la presunta ricaduta occupazionale che essa comporta affermando che essa porterà ad un’ulteriore impoverimento dell’isola. Che cosa ne pensate?

Per rispondere a queste argomentazioni, e per soppesare attraverso dati oggettivi le conseguenze dell'occupazione militare sulla nostra isola, abbiamo avviato un nostro gruppo di lavoro, che di recente ha prodotto un interessante dossier sul Poligono Interforze del Salto di Quirra (consultabile e scaricabile a questo link, ndr). La nostra ed altre ricerche (come “PISQ analisi contro fattuale e valutazione del rischio sull’area interessata dal PISQ” realizzata dall’Università di Cagliari), mettono in luce come le alternative economiche ed occupazionali ci siano, e, se messe in atto, genererebbero un'occupazione maggiore rispetto a quella attuale, oltre che etica e sostenibile. Dal nostro punto di vista, lo sviluppo di alternative economiche non può che prescindere da una chiusura del Poligono e dalla bonifica del territorio compromesso. Andando nello specifico, il Poligono di Quirra dà lavoro in maniera diretta a  circa 600 militari e 70 civili, ai quali si aggiungono 160 lavoratori della Vitrociset, 100 di mense e pulizie, oltre che 15 di altre ditte. Tenendo conto che la maggior parte dei militari non risiedono in questo territorio, ma nella zona di Cagliari e Hinterland (non essendo più obbligatorio per loro avere la residenza dentro le basi), quante buste paga restano effettivamente nei comuni del poligono? E a quante altre attività economiche il poligono impedisce lo sviluppo? Oltre all'agricoltura, si pensi solo al turismo, con la splendida spiaggia di Murtas (estesa per ben 7 chilometri) compresa totalmente nel Poligono, così come numerosi siti naturalistici e archeologici. Il comune di Villaputzu (il principale centro costiero del PISQ) ha visto tarpato dalla base un suo possibile sviluppo turistico negli ultimi 50 anni. Al contrario, i comuni costieri limitrofi non interessati dal poligono sono cresciuti dal punto di vista demografico e occupazionale, e sviluppati grazie al turismo. Quest’ultima affermazione è dimostrata dal numero di visitatori procapite annuo, maggiori di oltre 10 volte rispetto a Villaputzu. Per non parlare delle conseguenze etiche di questo tipo di occupazione (leggasi guerra, morte e distruzione nei vari scenari internazionali) e quelle sull'ambiente e la salute, come ben mettono in luce le diverse inchieste e ricerche che hanno dato il via all'attuale processo ai generali del poligono.

L'impianto giuridico delle servitù militari è applicato nei fatti al di sopra e al di fuori di qualsiasi sfera di sovranità totale o parziale dei sardi, che non sono mai stati consultati in materia. Com'è sostenibile una posizione del genere, ora che il mondo in cui viviamo è totalmente diverso da quello post-seconda guerra mondiale, quando venne definito il ruolo della Sardegna come crocevia strategico dell’alleanza atlantica nello scenario europeo?

Anche se la situazione geopolitica globale non è più la stessa di 60 anni fa (fine della guerra fredda e della divisione in 2 blocchi), lo stesso non si può dire dell'imperialismo e delle guerre di aggressione. La Sardegna rappresenta ancora un terreno strategico sia per la sua posizione centrale nel Mediterraneo e sia per la sua bassa densità abitativa. Per l'Italia, la NATO e i suoi alleati, i poligoni sardi rappresentano ancora il terreno ideale dove testare le armi più moderne (vedi Quirra), prepararsi ai nuovi scenari bellici e mostrare la propria forza a Russia e Cina (vedi Teulada e la “Trident Juncture” del 2015), far partire i caccia dall'aeroporto di Decimonannu, come in occasione del bombardamento della Libia nel 2011 . E non solo, la Sardegna ospita anche una moderna fabbrica di bombe: la RWM Italia di Domusnovas, che vende la sua produzione all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen. Essere contro le basi militari in Sardegna significa anche schierarsi contro tutte queste guerra di aggressione, imperialiste e colonialiste.

Bonifica dei territori e delle aree marine compromesse da decenni di esercitazioni militari: a che punto siamo?

Per poter dare una risposta completa a questa domanda dovremmo avere l'accesso alle aree militari e a documenti riservati. Di certo possiamo affermare che esistono territori definiti (dalle stesse autorità militari) “imbonificabili”, come la famosa penisola delta di Teulada, e altri la cui vera e propria bonifica comporterebbe decenni. Con bonifiche non intendiamo solo lo smantellamento di rifiuti metallici tra cui bombe, proiettili e residui di carri armati e cimeli militari (le attività che dicono di portare avanti i militari), ma soprattutto il risanamento di acque e terre da metalli pesanti, radioattivi, cancerogeni a da tutte le altre sostanze nocive per l’ambiente e le persone. Concludiamo dicendo che una vera e propria bonifica potrà avvenire solo dopo la chiusura e la dismissione delle basi. Solo allora il danno reale potrà essere quantificato (da organismi indipendenti) e delle bonifiche definitive portate avanti. Riteniamo che il costo delle bonifiche debba essere a carico degli stati che hanno creato il danno, e che tali lavori non debbano essere portati avanti da militari o industria bellica.

Salto di Quirra, Capo Teulada, Capo Frasca, Decimomannu: ma ci sono anche tante altre zone dove la presenza militare è imponente. Poco visibile, ma sempre presente. Qual è secondo voi un luogo simbolo, magari poco noto, della "Sardegna militarizzata?"

A tal proposito appare doveroso parlare della base di Poglina, sita nei pressi di Capo Marrargiu (nella costa tra Alghero e Bosa). Questa, nata come punto di appoggio dell'organizzazione segreta paramilitare Gladio, e utilizzata come punto di appoggio e addestramento dei guastatori dipendenti direttamente dai servizi segreti (italiani e americani), pare non del tutto smantellata. Il territorio circostante è ancora recintato, con i purtroppo famosi cartelli gialli di “keep out”.  Addirittura (notizia recente, ripresa poco e niente dalla stampa), apprendiamo che la capitaneria di Alghero ha emesso un'ordinanza che interdice da maggio a settembre il passaggio di barche e di bagnanti nell'area antistante alla base. Quali attività sono in corso a Poglina e perché tutte queste interdizioni? Contro questo silenzio e per la liberazione della Sardegna da tutte le basi militari, scenderemo tutti in piazza domani, 2 giugno, a Cagliari.


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