Storie

La vita in un centro antiviolenza: dove le donne trovano il coraggio di tornare libere

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, abbiamo trascorso un pezzetto di quotidianità in uno dei centri antiviolenza di Roma gestito dall’Associazione Differenza Donna che dal 1989 si dedica alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere

Associazione Differenza Donna (Credit Lara Cetti)

ROMA - Una scarpetta lasciata sul pavimento del corridoio cattura lo sguardo. Un sussulto di allegria il bimbo che interrompe il suo gioco e “ciao!” dice, con una voce così piccola, forte, da rendersi megafono di tutta la serenità dell’universo. 

La serenità dell’universo. 

È sorprendente ritrovarla qui, in un centro riservato alle donne vittime di violenza e ai loro figli gestito dall’Associazione Differenza Donna, durante un piovoso pomeriggio di novembre. Quasi miracoloso sentirsi pervasi da una combinazione di coraggio, di ottimismo, di amore per la vita che stilla da sorrisi e diffonde bellezza, come effetto sorprendente di una specie di osmosi ‘emotiva’ dalla quale è impossibile restare fuori. 

Oggi, 25 novembre, ricorre la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Questo è uno di quei luoghi in cui ogni giorno, 24 ore su 24, i bersagli di quella sopraffazione trovano lo spazio, i tempi, il modo per dire basta e recidere il filo spinato dell'angoscia che blocca, punge e ordina di tacere e subire.

Insieme a Cristina Ercoli, responsabile di uno dei centri antiviolenza di Roma dell’Associazione Differenza Donna, e alla referente della comunicazione Vanessa Doddi, abbiamo provato ad addentrarci nella quotidianità di coloro che chiedono aiuto per interrompere la spirale perversa nella quale si sono ritrovate, loro malgrado. 

Perché comprendere il disagio, l’inquietudine, la paura di chi quella violenza se l’è ritrovata accanto, agita da chi occupa l’altra metà del letto, da chi controlla, spia, ordina parlando al capo opposto del telefono, da chi veste le spoglie finte di un uomo galante e generoso, è utile - doveroso - a tutti: alle donne che restano in silenzio, per riappropriarsi dell’audacia che le spinga alla denuncia; agli uomini, per renderli consapevoli di quali traumi siano capaci di generare; a quanti siano determinati nel voler cambiare l’assetto culturale della società, per permettere alle donne di sapersi davvero libere. Di essere, di fare, di diventare.

(credit foto Laura Cetti)

 

L’Associazione Differenza Donna nasce a Roma il 6 marzo 1989 con l’obiettivo di far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere.
Lo strumento prioritario di cui si avvale per prevenire e contrastare la violenza di genere sono i centri antiviolenza dove vengono accolte e, se necessario, ospitate donne di ogni Paese, cultura e religione, che si trovino in una situazione tale da sentirsi soggiogate dalla prepotenza maschile.
“Qui ci sono spazi dedicati a ognuna, a partire dalla stanza individuale riservata a loro e, se ne hanno, ai figli” ci spiega Cristina Ercoli mentre ci accompagna tra le stanze della struttura in cui dietro ogni porta si scorgono i volti accoglienti delle ospiti, delle operatrici, dei piccoli impegnati a giocare.

Violenza sulle donne, istruzione e lavoro non bastano: "Serve l'indipendenza economica" 

“Questa è una casa-rifugio per donne che siano determinate ad uscire da una situazione di violenza di qualsiasi tipo: stalking, maltrattamenti, stupro agito dal partner, dall’ex o da un membro della loro famiglia. Possono anche decidere di venire qui per scappare da maltrattamenti che, pur non essendo arrivati alla concretezza fisica, si sostanziano in minacce di morte tali da indurre la donna a volersi preventivamente tutelare cercando un’alternativa”.

“La violenza, però, non va confusa con il conflitto” - precisa Ercoli - “Nel conflitto c’è la mediazione, può esserci una psicoterapia, possono esserci altre strategie e può intervenire anche il tribunale per fornire una qualche mediazione. Ma quel tipo di strumento non è utile nel caso della violenza e, anzi, potrebbe anche rivelarsi dannoso. Tant’è che i cultori della materia, i ‘mediatori familiari’, di fronte alla violenza dicono che non possono agire. Per questo le donne che subiscono violenza devono frapporre tra loro e l’uomo violento un terzo istituzionale affinché possano riproggettarsi. Noi siamo il luogo di protezione e tutela dove loro possono recuperare un ambiente sano”.

- Ci sono dei parametri per accedere al centro?

Da regolamento del centro si accolgono donne di qualsiasi età (il numero più alto è nella fascia tra i 25 e i 45 anni ma ci sono anche donne che hanno superato i 60) con relativi figli, a prescindere dalla condizione economica. Uniche eccezioni sono per le donne che abbiano delle dipendenze (tossicodipendenti, alcoliste, pazienti psichiatriche). I figli maschi fino ai 12 anni. Questo perché a 13 anni i ragazzi sono già in fase di adolescenza e avendo visto o subito a lungo, potrebbero aver introiettato determinati atteggiamenti che necessitano di un altro tipo di percorso.

- Da dove parte il vostro aiuto?

Parte tutto da una telefonata al numero 1522, centralino nazionale che indirizza la telefonata nei centri sul territorio a seconda del luogo da cui parte la chiamata. Al telefono chiediamo pochissime informazioni, perché in quel momento le donne spesso non hanno nemmeno il tempo di raccontare di sé trovandosi già in una situazione di pericolo. Se possibile, chiediamo il nome e il luogo in cui abitano e fissiamo un colloquio che non avviene mai in due. La nostra finalità, infatti, è quella di uscire da un sistema duale di relazione ‘chiusa’ propria della donna che ha subito violenza. È una posizione asimmetrica la sua rispetto all’uomo che è con lei in una situazione di fiducia, essendo compagno, marito, padre. Col tempo la donna ha normalizzato questa relazione esclusiva che è a due, appunto, e tende a replicare quel modello di riferimento. Per questo cerchiamo di essere almeno in tre nei colloqui, per iniziare a farle riemergere da una situazione di potere e farle sentire alla pari.

(foto credit Laura Cetti)

- Cosa emerge dal primo colloquio? Quali sono le strategie che adottate?

Insieme valutiamo un percorso da fare che - si badi - non è una terapia, non ha natura curativa, assistenziale. La finalità è quella di ridistribuire ruoli e responsabilità. Insieme alla donna rileggiamo la sua vita, segnata dalla falsa credenza secondo cui essere picchiata vuol dire averlo meritato. Il violento ti picchia, ti aggredisce fisicamente o con le parole e ti dice che è colpa tua. A forza di sentirlo ci si autoconvince di essere responsabili. Come avviene tutto lo spiega bene la spirale della violenza in cui ogni donna che fa il primo colloquio si riconosce. 

1- Intimidazione. L’uomo fa di tutto per insinuare il dubbio sulle certezze che la donna si è creata fino ad allora. Inizia a minare il suo territorio, ad avere un atteggiamento tale a screditare le amiche, per esempio, con frasi del tipo “guarda come si veste”, “mi ha lanciato sguardi…”. In quel momento lei è in una in una fase di innamoramento che fa calare le barriere e non consente di individuare quelli che sono veri campanelli di allarme. È pronta ad accogliere l’altro, anche nelle differenze e lascia correre. 
2- Isolamento. Inizia allora a fare in modo di creare degli impedimenti alla sua quotidianità, agli hobby per esempio. Lei, tuttavia, non li vive come tali, perché lui la riempie di attenzioni, e a nulla servono gli eventuali moniti dei familiari, delle amiche… È invischiata, non si accorge. È un ragno che tesse la tela, che lavora sulle fragilità.
3- Svalorizzazione. “Tu non sei capace di fare niente, se non ci fossi io saresti in mezzo a una strada” inizia a ripetere lui, e siccome si è in due in un rapporto esclusivo e simbiotico, la donna comincia a costruirsi la credenza che lui abbia ragione. Togliere valore a te contribuisce ad accreditare la sua versione. 
4- Segregazione. Stato di isolamento totale. Non solo l’uomo allontana la donna da quelli che erano i suoi precedenti contatti (come nella fase dell’isolamento), ma la priva di qualsiasi contatto. È una resa in schiavitù. 
5- Aggressione fisica e sessuale. Se le donne si trovano in uno stato di convivenza o di matrimonio, non leggono lo stupro, non lo percepiscono come tale. Molte hanno detto: “Non sapevo che nel matrimonio ci potesse essere violenza sessuale, pensavo fosse un dovere coniugale”. È capitato che dopo un’umiliazione forte come può essere quella di averla obbligata a inginocchiarsi davanti a lui e ai figli, il compagno l’abbia chiamata in camera da letto. “Ci sono stata per tenerlo buono” ha detto la donna, ignara del fatto che quella è, a tutti gli effetti una violenza sessuale, perché ha acconsentito a un suo volere quando non era in un stato d’animo tale da acconsentire liberamente.
6- False riappacificazioni. A momenti di violenza si alternano momenti di pentimento e ci sono sempre, tra una fase e l’altra di questa spirale. Lui chiede scusa, spinge la donna a perdonare, a giustificare, sperando in un cambiamento che non arriva mai.
7- Ricatto sui figli. Se la donna si ribella, l’uomo fa leva sui figli e minaccia di toglierli “perché non è una buona madre”.

(crediti foto Simona Ghizzoni)


- Cosa succede dopo il colloquio, quando la donna con eventuali figli viene ospitata nelle vostre case rifugio?

Noi chiediamo allo Stato gli strumenti necessari perché si possano riprogettare. Abbiamo anche un ufficio legale con gratuito patrocinio specializzato in materia di violenza di genere. Nessuno dei familiari deve sapere che la donna è ospite di un centro, almeno per i primi tempi. Nel caso sia una lavoratrice, può essere richiesto il congedo indennizzato per le donne vittime di violenza di genere (previsto dall’art. 24 del decreto legislativo n. 80 del 15 giugno 2015, ndr): con una dichiarazione del centro che ospita la donna insieme ad una modulistica scaricabile dal sito dell’Inps si può accedere al congedo, quindi mantenere il lavoro e avere lo stesso stipendio.
Ma, per quanto brillante, questa norma ha delle criticità: i tre mesi previsti dal congedo non bastano, perché non sono sufficienti ad ottenere in campo civile o penale dei provvedimenti d’urgenza - come il divieto di avvicinamento - che mettano a sicuro la donna.

- Per quanto tempo possono restare qui?

Per disposizioni dell’ente, abbiamo un massimo di 6 mesi di permanenza per la ospitalità durante il quale si stabilisce un piano focalizzato sull’accoglienza, sulla messa in protezione, sulla creazione di una nuova rete in tutti i campi. In alcuni casi bisogna fare accertamenti medici, screening sanitari, si procede con il cambio del medico di base e del pediatra per i bambini. Poi si procede con l’inserimento nel pubblico impiego, se si tratta di una ragazza giovane che non abbia precedenti lavorativi, oppure con un progetto di bilancio di competenze e orientamento al lavoro per accedere a tirocini professionalizzanti per accedere agli stage. Dopo inizia una seconda fase di progetto: una volta che si hanno le tutele all’incolumità psicofisica, sia stato disposto il divieto di riavvicinamento nei confronti dell'uomo, sia avviata la separazione, la donna può ritornare nella propria casa.

- E se quei 6 mesi non sono sufficienti? 

Possiamo chiedere proroghe. E capita spesso. È vero che 6 mesi sono pochi, ma noi non siamo la soluzione. Siamo un trampolino di lancio affinché la donna scopra che esiste un luogo dove poter potenziare idee, progetti individuali, dove implementare una creatività che la spinga magari anche a reinventarsi in un ruolo professionale diverso. 

"La cosa più importante che fa il centro è l’elaborazione della violenza, ed è un lavoro capillare. Il nostro lavoro non ha natura assistenziale. Noi riconosciamo le specificità di ogni donna, perché ognuna è diversa dall’altra, ha un vissuto diverso".

(credit foto Pax Paolscia)

- In tutto ciò, la donna come riacquista la fiducia nel genere maschile? 

Qui la donna capisce che solo quell’uomo era così, che solo quella relazione era violenta. Dopo questo percorso ognuna vive un potenziamento di valori e di risorse tale da sentirsi sicura di poter ricominciare la vita. Una donna che è esce da qui è coraggiosa e autodeterminata ed è in grado di combattere un sistema intero. 

- Una volta uscita da qui, il vostro supporto continua? 

La donna continua a fare un colloquio secondo un calendario di appuntamenti presso di noi. Si può arrivare anche alla fase in cui la donna si sente risolta e continua a partecipare a eventi pubblici, manifestazioni, diventa socia dell’associazione…

- C’è un ‘identikit’ dell’uomo che agisce violenza e della donna che può esserne succube?

No, non c’è, l'uomo violento è impossibile da riconoscere subito. All’inizio si presenta come un uomo generoso, seduttivo, pronto a ricoprire di attenzioni la sua compagna. Così come per la donna che si ritrova vittima, non si può stabilire chi sia più predisposta alla violenza che, subendola, causa un danno definito ‘disturbo post traumatico da stress’, paragonato a quello vissuto nei campo di concentramento. Possono anche essere donne manager di grandi aziende, persone che ricoprono ruoli apicali. Sono donne di qualunque cultura e classe sociale. 

- Può esserci un effetto ‘transgenazionale’? Può essere che la donna sia vittima di violenza magari perché in famiglia ha visto, respirato, un rapporto asimmetrico che poi tende a riproporre nella sua vita?

Sì, ma non è detto che sia sempre così. Si chiama ‘effetto moltiplicatore sociale’: se un bambino è vittima o testimone di violenza in famiglia tende a replicare il modello che ha introiettato, a meno che non  sia stato garantito da una madre che si sia determinata a uscire dalla violenza.

- Quanto l’aspetto culturale influisce sul fenomeno della violenza di genere?

Siamo in un paese che non garantisce alla donna di avere diversi ruoli. Esiste un’aspettativa socioculturale per cui è sempre la donna che deve rinunciare a qualcosa, che deve accudire. Se due persone hanno un progetto comune che è una famiglia, dove sta scritto che sia la donna a dover rinunciare al lavoro e non l’uomo? Perché se una donna viene picchiata e si confida con qualcuno, la prima cosa che le viene chiesta è: “Ma tu cosa gli hai fatto? Che è successo?”, come se esistesse un motivo che possa giustificare la violenza?

Lo stereotipo sociale della "donna-madre" è titanico: ha solo doveri e nessun piacere. Ed è terribile, perché una madre che è triste e rappresenta solo il dover fare e non il dover essere, privata di qualsiasi strumento di piacere, di allegria, di spensieratezza, è un presagio di morte per i figli.

"Tutto questo parlare però sta facendo sì che si inizi a pensare che questo sia un modo sbagliato di pensare. Stiamo insinuando dei dubbi. È importante intanto fotografare la violenza, non normalizzarla e non confonderla con il conflitto (in cui la donna non ha paura dell’uomo)"

Negli anni avete registrato un escalation del fenomeno della violenza sulle donne?

Assolutamente no. Da 20 anni abbiamo notato una maggior richiesta di posti. C’è ancora un sommerso enorme che però diminuisce se sul territorio ci sono dei centri a cui ci si possa rivolgere, che diventino la scelta della donna di uscire da quella situazione che non è un destino, ma l’effetto di una concezione culturale. Grazie ai movimenti femministi e ai centri antiviolenza stanno cambiando molte cose.

Come si finanziano i centri antiviolenza?

Noi gestiamo i centri su finanziamento della Regione Lazio. Abbiamo partecipato a un bando pubblico dove oltre al progetto, alla metodologia, ai curricula delle esperte - avvocate, educatrici, assistenti sociali, psicologhe -  abbiamo aggiunto il ruolo della ludopedagogista e della psicologa per donne disabili. Per il progetto di un anno il finanziamento è di circa 200mila euro ed è a fatturazione, per cui noi fatturiamo, rendicontiamo tutto il necessario per il mantenimento dei nuclei familiari ospitati. Nel centro antiviolenza la donna non paga niente. 

“Il centro antiviolenza non è un luogo di sofferenza, ma di vita, di riproggetazione di sé” dice Cristina Ercoli alla fine del colloquio. Ed è vero: queste mura accudiscono esistenze che rinascono, forti della consapevolezza di sapersi finalmente libere.


Si parla di