Film e Serie Tv

Gabriele Falsetta: "Io, un ligure british con il poster di Oldman, alle prese con criminali e pezzi di M..."

Intervista all'attore di Monterossi, che ci parla della sua carriera passata, presente e futura. Con lo sguardo sempre rivolto ai suoi idoli e alle sfide costanti

Gabriele Falsetta

"Oltre al buio che c'è / E al silenzio che lentamente si fa / E alla luce che taglia il mio viso / Improvvisamente eccomi qua": sono versi di La valigia dell'attore, una meravigliosa canzone di Francesco De Gregori che ci è venuta in mente rileggendo gli appunti della nostra chiacchierata con Gabriele Falsetta.

Falsetta è Il Biondo di Monterossi, uno dei due killer che con Il Socio, interpretato da Maurizio Lombardi, costituisce l'elemento comico della serie Prime Video tratta dai romanzi di Alessandro Robecchi. In Monterossi, Il Biondo e Il Socio sono milanesissimi, a differenza degli attori che li interpretano: Lombardi, a dispetto del nome, è fiorentino, mentre Falsetta è genovese. 

Il grammelot di Falsetta

Ma nella "valigia di un attore" ci sono, ci devono essere anche personaggi tra loro molto diversi, per un'infinità di aspetti, tra cui quello linguistico: e infatti nel curriculum di Gabriele ci sono il natio genovese, il milanese appreso negli anni di formazione al Piccolo Teatro meneghino, il torinese acquisito quando viveva sotto la Mole e anche il calabrese ereditato dal padre trasferitosi al Nord quando era bambino. 

"Il mio nordico è un po' imbastardito" dice lui, mentre ci perdiamo in una discussione sugli accenti. "Per sopravvivere come attore a Roma fondamentalmente non serve, se non in specifici progetti, un accento preciso al dettaglio, ma quello che io chiamo un approccio espressionista". 

Per Il Biondo, in particolare, ha dato vita a "un milanese della strada, un milanese di Baggio o di Barona", e siccome secondo Falsetta (e secondo noi) "la nostra è una lingua molto ostica e l'italiano pulito non esiste, dovendo sopravvivere da nordico è diventato una necessità creare una sorta di grammelot di lombardo, piemontese e ligure". 

Quel "pezzo di M" di Farinacci

Poi però "sopravvivere" non basta più, e così Falsetta svaria da un genere, da un personaggio e da un accento all'altro, fino ad arrivare al molisano di Roberto Farinacci, il ras di Cremona a cui darà vita in M - Il figlio del secolo, serie tv diretta da Joe Wright (Orgoglio e Pregiudizio, L'ora più buia) che uscirà nel 2024 su Sky e che è tratta dal romanzo di Scurati su Benito Mussolini. 

"Chi se lo ricorda dai libri di storia lo fa sempre con un brivido, perché Farinacci era un pezzo di m..., era veramente il peggio di tutti lì dentro". 
Si interrompe un attimo, scherza: "Alla faccia dei consigli da attori come 'difendi il tuo personaggio', 'non giudicarlo'...". E spiega: "Sì, la 'concorrenza' non mancava nel fascismo, ma mentre ad esempio Balbo era sì un fanatico cocainomane, ma era anche un accesissimo oppositore delle leggi razziali a cui Mussolini si era piegato come un agnellino per cementare l'alleanza con Hitler, Farinacci era proprio un bastardo, un filo nazista". 

Falsetta parla a ragion veduta, perché nella sua valigia ci sono anche otto libri sulla figura di Farinacci - "tanto che alla fine volevo andare dagli eredi a dire loro quello che pensavo del loro antenato, poi ho scoperto che un suo nipote, un medico condotto, nel 2011 si è suicidato sulla tomba del nonno: il male che si perpetua, ho pensato". 

Tornando al personaggio che dovrà interpretare in M, Falsetta spiega ancora: "A un certo punto ho trovato un libro del 1964, che diceva che Farinacci era figlio di un poliziotto napoletano e di una donna anche lei del Sud, e che è rimasto in Molise fino ai 18 anni. Allora parlando con Joe Wright e con gli sceneggiatori siamo arrivati alla conclusione che era impossibile che già a 25-30 anni lui parlasse in cremonese, che peraltro è un idioma molto complesso. Così sono andato di 'full Molise' per la sua parlata".

Il modello Giannini e l'approccio espressionista

Una parlata che non fa parte del suo bagaglio, pardon della sua valigia, ma che proprio per questo gli permette di "creare una distanza, una lingua nuova, in contrapposizione al grammelot genovese-torinese-milanese, che mi serve per dare densità alla lingua". 

Scherziamo con lui "rinfacciandogli" un napoletano non proprio ineccepibile in Monterossi 2, ma lui capisce lo scherzo e rivela: "Sti due deficienti di Il Biondo e Il Socio non potevano fare un napoletano puro, quindi l'approccio è stato 'parlare napoletano come farebbe un vero milanese'..." con un risultato esilarante. 

Visto il tema, non potevamo non chiedergli cosa ne pensasse della questione sollevata da Pierfrancesco Favino sui personaggi italiani interpretati da attori non italiani, e lui dice la sua: "Ribadendo che secondo me l'italiano vero non esiste, perché lo abbiamo formalizzato da Dante in poi basandoci sul toscano che a sua volta è un dialetto, secondo me la forza sta nella diversificazione". 

"Era una cosa che diceva anche Giancarlo Giannini nella sua biografia. Lui, che è sempre stato bravissimo con gli accenti - dal siciliano al napoletano al romagnolo - girava ad esempio la Sicilia con un piccolo registratore e parlava con i vecchietti, con la gente del posto, poi se li riascoltava e da quello faceva la sua versione espressionista, massimalista dell'accento. Come faceva anche Gian Maria Volontè" aggiunge, e noi aggiungiamo Libero De Rienzo che per Santa Maradona studiò per mesi l'inflessione torinese. 

Falsetta torna ai suoi miti: "Da ragazzino, quando studiavo, mi approcciavo al mestiere e non sapevo bene cosa volesse dire recitare, soprattutto al cinema, in un dialetto che non fosse il mio, guardavo Giannini e Volontè". Un approccio "espressionista", dunque, perché "mi metto tra coloro che pensano che quando stai rappresentando qualcosa sei appunto nella dinamica della rappresentazione e ti puoi permettere, allo scopo di comunicare e di passare informazioni, di spingere un pochino il pedale". 

"Questo non vuol dire tradire per tradire" chiarisce subito "non è una questione di pigrizia quanto di consapevolezza". Ed ecco che, appunto, quando Wright ha chiesto al cast principale di M di calarsi nei rispettivi dialetti - "tutti spostati rispetto ai propri, quindi ad esempio Luca Marinelli e Benedetta Cimatti col romagnolo di Mussolini e donna Rachele, Barbara Chichiarelli col veneto di Margherita Sarfatti", Falsetta si è concentrato sul molisano "approcciandolo come un veicolo di informazioni per passare delle informazioni anche fisiche".

L'idolo Gary Oldman e l'espressività della lingua

Per spiegare quest'ultima affermazione, Gabriele tira fuori uno dei suoi idoli, Gary Oldman. L'attore britannico, che ha vinto un Oscar proprio col già citato L'ora più buia di Joe Wright in cui interpretava Winston Churchill, ha raccontato in un podcast di aver assunto un tenore per trovare il giusto range vocale da attribuire a Churchill - "e pensare che Oldman a 20 anni già padroneggiava molteplici accenti americani" - ma ha anche sottolineato come insieme alla parlata "vanno modulati anche gli zigomi, la bocca, gli occhi, che a seconda delle latitudini hanno caratteristiche peculiari. Lui faceva l'esempio dell'enorme differenza che c'è tra un newyorchese di origini irlandesi e un abitante del New Jersey con origini italiane: il primo terrà la bocca molto più chiusa, perché la sua parlata nasce in un posto dove fa molto più freddo che in Italia dove invece tendiamo ad aprire le vocali". 

"La nostra è una lingua estremamente espressiva e quindi la vedo come un veicolo espressivo fisiologico più che qualcosa a cui essere filologicamente e lessicalmente fedeli. Perché quando reciti per un pubblico ti diverti a creare un corpo per quel personaggio che parla davanti al pubblico, e ciò comporta anche accorgimenti a livello fisiognomico. Poi certo, ti fai trasportare dal personaggio stesso".

I liguri british e il perturbante di Falsetta

Nella valigia dell'attore Falsetta c'è un mondo intero, che va dal film Fargo dei Coen, di cui cita le performance di Peter Stormare e Steve Buscemi, alla sua Recco, il "paesino stranissimo" dove è cresciuto (e di cui non cita la famosa focaccia, ndr), tutto all'insegna di un "minimalismo di provincia". "Dalle mie parti non c'è un'espressività corporea, in quello siamo un po' 'british' se vogliamo dirla così". Liguri british... l'espressione calza a pennello. 

Gli chiediamo allora come si trovi nel variare stile e genere, dal simpatico criminale di Monterossi al pezzo di m., anzi al pezzo di M di Farinacci, e lui parte da un aneddoto: "Qualche giorno fa ho incontrato una ragazza che mi conosceva per avermi visto non so in che cosa e mi ha detto: 'Tu mi crei un'inquietudine, avverto in te qualcosa di perturbante e pericoloso'. È una cosa che mi sento dire da sempre: da più giovane mi dicevano anche che ero 'ambiguo' forse anche per i miei tratti sinuosi, non proprio virili". 

"A questa ragazza ho risposto: 'Lo so che non mi conosci, ma io in realtà sono un grandissimo deficiente, un cazzaro'. Ecco, passo da questa cosa personale per dirti che secondo me i ruoli che sono stato portato a fare fino ad adesso sono dati più da una percezione derivata da una mia osservazione di un certo mondo. Ho osservato da vicino i cattivi, i bad boys, i borderline, anche i criminali, e sono sempre stato affascinato da un lato oscuro, però io di mio non ho niente di quella roba. O meglio: tutti abbiamo qualcosa in quel senso...".

Tra commedia e dramma "vince" la tragedia

Nello specifico, sulle differenze tra i generi, dice: "Ho sempre pensato che per fare una commedia, anzi una Commedia, devi essere un grande performer che accetta una sfida molto complicata, perché la vera Commedia ti porta a livello fisico, psicologico e anche sonoro-vocale a un lavoro incredibile. Da un certo punto di vista il dramma può essere più semplice per quanto riguarda l'empatia del pubblico. Ma alla fine dramma e commedia sono due piaceri diversi, come lo slalom gigante e la ciaspolata". 

Oltre che in M, prossimamente vedremo Falsetta anche in Finalmente l'alba di Saverio Costanzo e in un progetto ancora top secret diretto da Maria Sole Tognazzi, di cui ci viene rivelato solo che "farò un personaggio più leggero" di quelli interpretati con Wright e Costanzo, e così la discussione si sposta sul tema attori protagonisti e caratteristi. e dalla sua valigia spuntano fuori altri nomi, altri punti di riferimento. 

"Penso a William Hurt, che è sempre stato un 'leading role' di film drammatici di un certo peso, che in Ti amerò fino ad ammazzarti fa questo cameo al fianco di Keanu Reeves, e interpreta un sicario sfigato che ricorda i nostri Socio e Biondo, ed è di una comicità fantastica, è una macchina da guerra in quel ruolo. Così come Steve Carrell, che è un mostro sacro del comico però ha quelle note basse e oscure che evidentemente gli appartengono. O come Robin Williams. Il punto secondo me è che stai performando, e se è più un genere o un altro è una questione che devi andare a ricercare nella scrittura". 

Proviamo quindi a inchiodarlo, con la classica domanda "ma se dovessi scegliere di fare solo un genere, sceglieresti il dramma o la commedia?". Ma Falsetta esita, sembra in difficoltà e invece se ne esce con "una risposta da str..." (per sua stessa ammissione):  "Sceglierei l'epica, o la tragedia perché come ci hanno insegnato nella tragedia puoi anche ridere oltre che straziarti. Sono per le misure drastiche, quindi, anche se d'istinto ti direi il dramma, rispondo che propenderei per la tragedia". 

Gary Oldman the GOAT

Visto che ha citato Gary Oldman gli chiediamo se ha visto Slow Horses, in cui Oldman riesce a far ridere il pubblico in un ruolo teoricamente drammatico, con un personaggio che definire burbero è un eufemismo. Ma anche stavolta Falsetta ci stupisce: "Non ho i mezzi di Gary Oldman, che per me è quello che si definisce G.O.A.T. (greatest of all time, il più grande di tutti i tempi, ndr), non c'è nessuno con la sua classe. In casa ho un poster di una sua intervista a Vanity Fair del 1987, figurati. Cioè, lui ha fatto Sid Vicious, Lee Oswald, Dracula, il drammaturgo Joe Orton, Winston Churchill, il cattivo di Leon, e sai qual è la cosa veramente bella, grandiosa di Oldman? Che ha fatto il commissario Gordon dei Batman di Nolan, l'emblema dell'uomo della porta accanto, con baffetti e occhiali: una funzione letteraria, in pratica". 

"Ecco, quando hai i mezzi di Oldman e ti chiamano a fare il commissario Gordon è come se si chiudesse un cerchio. Significa che non bisogna sempre cercare il ruolo che esplode, si può anche fare un personaggio estremamente trattenuto. E in Slow Horses il suo personaggio sembra uscito da un romanzo di Conan Doyle perché lui lo ha fatto diventare quella cosa lì. Ma qui parliamo non di una stella del cinema, proprio di Alpha Centauri, o di un extraterrestre in grado di dar vita a creature di un altro mondo". 

Lo provochiamo citando Interstate 60, un film non proprio eccezionale con Oldman, e lui non si scompone: "Ma certo, ha fatto anche film orrendi. In Tiptoes, per dire il più brutto, lui fa la parte di un nano fratello gemello di Matthew McConaughey, e recita con le scarpe attaccate alle ginocchia e il resto del corpo di misura normale. Una cosa che quando vedi sto film pensi che nel mondo del cinema c'è possibilità per tutti, lì fuori è Las Vegas, posso entrare povero e uscire ricco. Questo per dire che è incredibile cosa ti porta a fare questo lavoro, se Gary Oldman fa la persona affetta da nanismo recitando con le scarpe attaccate alle ginocchia".

Da Il Biondo al biondino Piccioni

Tornando ai suoi prossimi impegni arriviamo a Piero Piccioni, il personaggio che interpreta in Finalmente l'alba, film che parla - seppur lateralmente - della storia del caso Montesi. Scherziamo sul fatto che Piccioni, presunto assassino di Wilma Montesi, era soprannominato "il biondino" dai giornali dell'epoca. "Eppure Piccioni non era biondo" dice "ma del resto neanche Il Biondo di Monterossi lo è". 

E ci rivela un momento del dietro le quinte di Monterossi: "Io e Maurizio Lombardi avevamo anche proposto una battuta su questo aspetto. Il Socio mi avrebbe dovuto chiedere 'ma perché ti chiamano Il Biondo?' e io avrei risposto, come se fosse la cosa più normale del mondo, 'Perché ho gli occhi verdi', cosa che non è vera, buttandola quasi sul teatro dell'assurdo di Beckett. Ma il regista Roan Johnson non era d'accordo, perché in effetti i nostri due personaggi si chiamano così ma nessuno si rivolge a loro chiamandoli in quel modo. Perché a me e Maurizio se non ci dai un freno facciamo il Bagaglino" (a proposito di valigie...).

La grande intesa con "il socio" Maurizio Lombardi

Un episodio che descrive bene la chimica che Falsetta e Lombardi hanno in Monterossi. E Gabriele spiega: "Noi ci siamo conosciuti prima, poi meglio sul set e poi a un certo punto ci è capitato di lavorare così tanto insieme che stavamo diventando un duo senza accorgercene. Per il provino di Monterossi cercavano delle coppie a cui affidare quei due ruoli, e noi due ci presentammo con un cortometraggio da noi girato e montato, quattro scene in quattro ambienti differenti. Io e Mauri siamo capaci di incontrarci alle 10 di mattina e raccontarci la rava e la fava fino alle 7 di sera. Funzioniamo così, con un brainstorming continuo, e più conosco Maurizio più gli voglio bene. E poi è un piacere lavorare con lui perché c'è sempre una stimolazione reciproca". 

E infatti si sono ritrovati anche in M. "Con Mauri il bello è che ci si racconta, si parla, poi lui è uno che conosce molto bene il cinema e il teatro quindi intavoliamo sempre mille discussioni su generi e stili. Per Monterossi, ad esempio, abbiamo lavorato tanto sui cantautori milanesi, e ci canticchiavamo le battute come fossimo Gaber e Jannacci". 

È così che siete riusciti a milanesizzarvi alla perfezione? "Esatto, poi io personalmente prima di andare sul set mi ascoltavo i lunghissimi discorsi di Vallanzasca ai processi per trovare quel milanese della Comasina ripulito" spiega, lanciandosi in un'imitazione divertente quanto impossibile da riprodurre per iscritto. "Così viene fuori quella cosa un po' raschiata, quel milanese che non te la conta giusta, e il personaggio acquisisce una densità".

"Io adoro invecchiare"

Dal presente al futuro, con un occhio anche al passato, Falsetta dice di sentirsi "in una fase di passaggio. Ho questi nuovi agenti a cui devo già molto, si chiamano Federico Grippo e Dante Perrel di Agave Consulenze Creative, e con loro stiamo facendo un lavoro di 'espansione'. A febbraio farò un film in cui il mio personaggio è più 'dritto', dove c'è un po' più di nascondimento". 

"Io adoro invecchiare" confessa "e non tornerei mai né ai 18 né ai 30 anni. Ed è molto apprezzato negli attori quel sedimentarsi, anche una certa stanchezza che ti porta a fare meglio le cose, come nella vita. E questo è un lavoro che ha bisogno di tanto relax, soprattutto se sei una testa in fermento e vibri come io vibro a una certa frequenza, per cui con Dante e Federico stiamo tracciando un percorso un po' nuovo anche rispetto a certe offerte che ci arrivano, per andare a cercare strade che seguano un po' quella sorta di autorevolezza, per far sì che nel comico come nel drammatico e nel tragico ci siano quella solidità e quella consapevolezza". 

Tra ambizione e deresponsabilizzazione

"Non nego che ci sia un'ambizione, perché in quanto attore ambisco. Citando ancora Gary Oldman, 'there's no plan B, be selfish' ed è vero, bisogna essere un po' egoisti in termini artistici, non personali. Ti dirò di più: ho realizzato che noi attori siamo soltanto un piccolo ingranaggio della grande macchina di questa industria e non sai quanto questa realizzazione mi renda felice. Con Joe Wright è andata così, a un certo punto mi sono accorto che è talmente potente la macchina e talmente grande il supporto che hai da tutti, da Marinelli a tutto il resto del cast, che se tu reciti con la cazzimma e l'impegno necessari alla fine tu fai il 10% del lavoro complessivo e in un certo senso brilli di luce propria".

"È una deresponsabilizzazione, e mi sento pronto per questo percorso di autorevolezza e solidità, per certi ruoli più maturi, con una profondità emozionale che rispecchia una fase della vita. Cinque anni fa ero quello che faceva la scena 7 al manicomio o la scena 18 mentre rapinavo dei bambini con un ago nel braccio, ed è come se quella cosa si fosse esaurita perché semplicemente non c'è più quella fascinazione per quel mondo lì che c'era forte prima".

Un'evoluzione personale che si accompagna a quella del settore, secondo Gabriele, che cita ancora William Hurt quando afferma "io soffro di questo complesso, mi sento un caratterista nel corpo di un protagonista". "Secondo me adesso anche da noi pian piano il mercato sta cambiando, e il sistema sta diventando a vasi comunicanti permettendo agli attori di spostarsi da un genere all'altro: e questo è anche il mio piano". 

Caratteristi e protagonisti

Non c'è più il "posto fisso" neanche tra gli attori, scherziamo, pensando a interpreti del passato che hanno fatto praticamente lo stesso personaggio per tutta la carriera. 

"Il cinema, le piattaforme oggi chiedono di più" risponde "e bisogna farsi trovare pronti. Del resto per me alla fine un protagonista è un caratterista risolto". E noi lo provochiamo ancora, sottolineando come il grandissimo Leonardo DiCaprio sia una specie di caratterista che fa sempre personaggi un po' esaltati e fuori dalle righe. 

"Assolutamente. Tra l'altro DiCaprio ha avuto la difficoltà ulteriore di emanciparsi dal ruolo di rubacuori che aveva all'inizio. Una difficoltà che un Daniel Day Lewis non ha dovuto superare, e che ha toccato Joaquin Phoenix solo in parte. Neanche River Phoenix, che per certi aspetti era il pre DiCaprio. River era una specie di Kurt Cobain del cinema, e sono pure morti a pochi mesi di distanza, ma era un caratterista nel corpo di un evidente, magnifico protagonista. Poi, di nuovo, stiamo parlando non di stelle ma di supernove, però per me il senso sta nello spostamento che un attore deve attuare, restando sempre in ascolto di ciò che accade intorno".

Le serie tv preferite 

E allora, a proposito di ascoltare e vedere quel che c'è intorno, gli rivolgiamo la domanda che facciamo sempre a tutti: quali sono i tuoi telefilm / serie tv a cui sei più legato? E anche stavolta la risposta ci coglie in contropiede. "Te ne dico due. La prima, per la magnitudine di quello che porta con sé, è Succession, che è volutamente disturbante anche a livello grafico ed estetico. Non è facilmente accessibile ma lì ci trovo una grandissima scrittura, anche teatrale, anche shakespeariana. E poi ho visto una serie inglese, con un attore inglese che io amo alla follia che si chiama Stephen Graham (This is England, Snatch), e si intitola The Virtues, di Shane Meadows. Pochissimi episodi incorniciati dalla colonna sonora di PJ Harvey, parla di una cosa molto intima, molto delicata: ecco quello per me è il non plus ultra, dove la sceneggiatura è perfetta, gli attori sono perfetti, la direzione è perfetta, e tutto risulta in una cosa che è come se uscissero dalla tv e ti prendessero a bastonate le tibie. Questo è ciò che mi piace". 

E se pensi ai telefilm di quando eri piccolo? Falsetta dà una risposta che è la chiusura perfetta di questa intervista, e metaforicamente della sua valigia dell'attore: "Da bambino guardavo Beverly Hills, Genitori in Blue Jeans, Baywatch, ed ero sempre innamorato di qualcuna. Poi tu non ci crederai ma da piccolo guardavo Twin Peaks. I miei me lo avevano vietato, ma quando nessuno mi vedeva lo guardavo di nascosto sulle videocassette che registravano. Ancora adesso se ripenso alla sigla, con la musica di Angelo Badalamenti e quegli elementi disturbanti, mi viene un po' di paura. Chissà, forse il mio lato perturbante ha origine in quelle visioni proibite".


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