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Oro e armi: Pechino e Mosca si spartiscono l'Africa

Milizie armate e corsa alle materie prime: gli interessi contingenti di Russia e Cina sono legati anche nel continente africano dall'amicizia senza limiti tra il leader cinese Xi Jinping e il suo omologo russo Vladimir Putin

Ndassima, miniera d'oro in Repubblica Centrafricana (Foto: LaPresse)

C’è stato un tempo in cui la Cina non nutriva particolare simpatia per la Russia. Poi messe da parte le tensioni della crisi sino-russa durante la Guerra Fredda, Pechino e Mosca sono riuscite a spartirsi i rispettivi interessi nel mondo, e in particolare in Africa. Anche se con modalità diverse. Nel continente africano la relazione tra le due potenze corre su un doppio binario, che rischia di incrociarsi. Da un lato la Cina che, fedele al principio di non ingerenza negli affari interni degli altri paesi, promuove e si spende per portare avanti vantaggiosi affari economici nel settore dei metalli preziosi; dall'altro, la Russia che continua a sostenere i diversi governi africani con la vendita di armamenti e altra forma di assistenza militare, in cambio delle concessioni sulle materie prime. 

Ma la celebrazione del rapporto (di convenienza) tra Xi Jinping e Vladimir Putin andata in scena a Mosca, sullo sfondo della guerra in Ucraina, non avrebbe avuto lo stesso clamore se i due leader avessero parlato dei rispettivi interessi in Africa. Perché è nel continente africano che "l’amicizia senza limiti" tra Cina e Russia mostra sottili crepe.

La centralità cinese nel settore dei metalli preziosi

Oro, cobalto, grafite, litio, neodimio, niobio, praseodimio, terre rare: sono questi i metalli verso cui la Cina indirizza la sua ricerca nel continente africano, con l'obiettivo di divenire leader della "new economy".  Queste risorse naturali, su cui si fonda il comparto industriale moderno, sono necessarie per la produzione di una vasta gamma di prodotti e servizi utilizzati nella vita di tutti i giorni (smartphone, batterie e monitor), ma anche per lo sviluppo di importanti innovazioni tecnologiche più ecosostenibili (turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e macchine elettriche). E ovviamente, il loro coinvolgimento è essenziale per la produzione di articoli del settore militari (laser, radar). 

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Dal Niger alla Costa d’Avorio, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Tanzania, il Malawi, il Mozambico fino alla Namibia, la caccia dei metalli preziosi per lo sviluppo di una vasta gamma di prodotti e delle "tecnologie pulite" ha aperto nuove frontiere alle industrie cinesi. Il gigante asiatico da anni sta compiendo uno sforzo incessante per integrare e aggiornare la propria catena di approvvigionamento di materie prime e terre rare. Sforzo che ha permesso di ottenere risultati notevoli. A oggi, infatti, il mercato è dominato dalla Cina, che produce circa il 60% delle terre rare mondiali, oltre a processarne e raffinarne circa l’80%: in questo modo il gigante asiatico si è garantito un ruolo centrale nella supply chain mondiale.

Le maggiori economie mondiali sono diventate fortemente dipendenti dalla Cina: anche Stati Uniti e Unione europea importano rispettivamente l’80% e il 98% delle materie prime. E ora dall'essere il più grande produttore e raffinatore di elementi di terre rare, la Cina punta a diventare il principale produttore mondiale di prodotti tecnologici ecosostenibili ad alto valore aggiunto. 

Ma c'è una faccia nascosta della medaglia. Gli investitori cinesi, presenti in tutto il continente africano con l'intenzione di fare affari e ottenere metalli preziosi per alimentare le loro industrie, sono consapevoli di esporsi alla rabbia della popolazione locale - che lamenta di essere sfruttata e sottopagata nelle miniere e nelle aziende gestite dai cinesi -, o alla violenza delle milizie locali. Violenza che sta diventando sempre più cruenta, come l'ultimo caso dei nove cittadini cinesi uccisi in un attacco alla miniera d'oro a Chimbolo, nella Repubblica Centrafricana. Lo stesso presidente Xi ha chiesto chiarezza, segnale che Pechino è preoccupata per la sicurezza degli affari in Africa e di chi li porta avanti.

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Il pericolo di essere rapinati e uccisi tuttavia non ferma l'attività imprenditoriale cinese in Africa. Secondo Paul Nantulya, ricercatore associato presso l'Africa Center for Strategic Studies della National Defense University di Washington, nel continente operano più di 10mila aziende cinesi, sia statali che private, con un portafoglio di attività di 2 trilioni di dollari. E già nel 2021 l'Africa aveva superato l'Asia come più grande mercato per le costruzioni cinesi all'estero: qui un progetto di costruzione su tre veniva realizzato da imprese cinesi e uno su cinque finanziato da una banca politica cinese.

La Belt and Road e la trappola del debito cinese

La violenza non è un freno per il gigante asiatico che ha impiegato massicci investimenti per assicurarsi il controllo delle miniere e degli hub strategici dell’Africa. Negli ultimi due decenni Pechino ha speso miliardi di dollari costruendo dighe, autostrade, ferrovie e porti nei diversi paesi del continente, dall'Egitto fino al Sud Africa. La presenza cinese in Africa si basa tanto sugli investimenti nella costruzione di capitale sociale e umano (scuole di formazione e laboratori) quanto su giganteschi progetti infrastrutturali. 

Almeno 40 paesi africani sono diventati il punto di approdo di numerosi piani legati al maxiprogetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, la nuova via della Seta, lanciato dal presidente Xi Jinping nel 2013. A fare breccia nei cuori dei diversi capi di Stato e governo africani (noti per essere inclini alla corruzione) sono stati i finanziamenti messi sul piatto per la 'magna opera' di Xi: ben 838 miliardi di dollari fino al termine del 2021, secondo le stime del think tank statunitense American Enterprise Institute.

Difficile resistere a questa pioggia di investimenti. I diversi governi africani hanno per questo permesso alla Cina di entrare nei loro paesi con la prospettiva di dare una spinta all'economia locale. Peccato, però, che le casse che finanziano il maxiprogetto cinese si stiano svuotando. Nei 40 paesi africani - secondo un rapporto dello studio legale internazionale Baker McKenzie - i finanziamenti bancari cinesi per i progetti infrastrutturali sono scesi da 11 miliardi di dollari nel 2017 a 3,3 miliardi di dollari nel 2020.

Si tratta di un duro colpo per i governi che aspettavano di ottener prestiti cinesi per costruire autostrade e linee ferroviarie che collegassero i paesi senza sbocco sul mare ai porti marittimi e alle rotte commerciali verso l'Asia e l'Europa. Eppure si tratta di prestiti concessi a condizioni a dir poco onerose e addirittura vessatorie, che hanno spinto diversi governi africani nella "trappola del debito" cinese. Con decenni di sovvenzioni folli alle spalle, la Cina è diventata il primo creditore globale dei paesi africani. Ma il primato tutto cinese pesa su alcuni paesi africani, che sono a rischio default economico.

Pechino ha quindi pensato a una sorta di sanatoria. Lo scorso agosto, l'allora ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha comunicato durante il Forum sulla cooperazione Cina-Africa che il gigante cinese rinuncerà ai 23 prestiti senza interessi per 17 paesi africani "che erano maturati entro la fine del 2021". Con un colpo di spugna, il gigante asiatico ha quindi deciso di non avanzare più pretese sulle rate ancora in essere e legate ai finanziamenti concessi alle economie africane.

L'ossessione tutta cinese per la sicurezza

Per assicurare la sua presenza nel continente e garantire la sicurezza dei suoi affari, Pechino ha al contempo investito molto nelle partenership politiche, scolastiche, accademiche e istituzionali in quasi tutti i paesi africani con cui intrattiene relazioni diplomatiche. 

L'azione cinese è a tutto tondo: diplomatica, commerciale e, infine, securitaria. Considerata l’ossessione per la stabilità, Pechino ha individuato un ulteriore modo per conquistare le simpatie dei leader africani. Ed è così che il continente è diventato il laboratorio delle relazioni tra Cina e Russia. Perché qui gli interessi dei due paesi spesso finiscono per collidere, con Xi e Putin che per poco non arrivano a pestarsi i piedi: il gigante asiatico sta infatti iniziando a rubare la scena all'industria bellica russa, incrementando l'export militare cinese in Africa.

Tra il 2010 e il 2021, Pechino ha aumentato la vendita di armi nei paesi dell'Africa subsahariana, dove ci sono i maggiori interessi del gigante cinese. Secondo uno studio dell'Atlantic Council, la Cina rappresenta il 22% delle esportazioni totali in Africa, mentre la Russia primeggia con una quota del 24%. C'è però un approccio diverso. Pechino preferisce consegnare queste armi nelle mani dei leader africani, delegando a loro la sicurezza del paese. Mosca invece ha una presenza ben più evidente nel continente, con i mercenari del Gruppo Wagner che operano spalla a spalla con governanti africani (alcuni dei quali controversi, come il generale libico Khalifa Haftar o il leader della Repubblica Centroafricana, Archange Touadéra), per sostenerli nelle guerre civili o nella lotta contro lo jihadismo, in cambio di risorse naturali. Ma come uno scherzo del destino, il loro aiuto militare crea più disordine che ordine.

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Le concessioni sulla estrazione e lavorazione delle materie prime sono il punto di contesa tra i mercenari Wagner e le aziende statali cinesi che, in maniera differente, offrono sostegno ai leader locali impossibilitati a sfruttare il grande bacino di risorse naturali per l’assenza di strutture o perché non sanno difendere gli impianti.

Finora i due paesi non si sono pestati ancora i piedi, perché agiscono in paesi diversi: ad esempio i cinesi concentrano i loro interessi economici in Etiopia, Kenya, Angola, Nigeria dove i russi non sono presenti. C'è poi l'ambizione a mostrare i muscoli agli Stati Uniti, che vedono ridurre gradualmente la loro influenza nel continente. Lo scorso febbraio Mosca e Pechino hanno condotto esercitazioni militari congiunte con il Sudafrica. E soprattutto il Partito comunista cinese e il Cremlino (che ha rapporti poco limpidi con i mercenari del gruppo fondato dall'oligarca Evgenij Prigozhin) sono legati da una stessa visione: colpire Francia e Stati Uniti per alimentare una propaganda anticolonialista occidentale e arrivare così a rafforzare la visione di un nuovo mondo multipolare.


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