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Come la Mongolia viene 'schiacciata' da Cina e Russia sul gas

Il paese asiatico da tempo traccia il percorso della strategia diplomatica detta del “terzo vicino”, volta a rafforzare la sua indipendenza politica da due potenti stati confinanti

Accantonare la propria democrazia e dare priorità allo sviluppo economico, che viene appaltato agli autocrati vicini. E’ questo il destino verso cui si incammina la Mongolia, circondata dalla Russia a nord e dalla Cina a sud e privo di accesso al mare. 

Due pesanti vicini

Il paese asiatico, approdato alla democrazia solo nel 1992 dopo il crollo dei regimi comunisti in Europa orientale, da tempo traccia il percorso della strategia diplomatica detta del “terzo vicino”, volta a rafforzare la sua indipendenza politica da due potenti stati confinanti. 

La Mongolia ha per questo coltivato relazioni diplomatiche con paesi liberali come Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti, con l’obiettivo di rendersi indipendente dalla Cina, cruciale canale verso cui esporta rame e carbone, e dalla Russia.

Il paese asiatico, tre volte più grande della Francia, ma con una popolazione di soli 3,5 milioni di abitanti - metà della quale vive nella capitale, Ulan Bator - sta diventando un corridoio preferenziale per la Russia, da cui la Mongolia importa quasi tutto il petrolio, ora oggetto dell’ostracismo internazionale.

Mosca, pesantemente colpita dalle sanzioni e dagli embarghi di petrolio e gas, punta verso oriente per aumentare le sue esportazioni verso Pechino, passando attraverso il suolo mongolo. Si presenta così un’opportunità doppia per la Cina: l’aumento dell’export del greggio russo è un’occasione vantaggiosa per Pechino che, al contempo, continua a fare pressioni sulla comunità buddista della Mongolia. E’ quindi probabile, sottolinea The Diplomat, che Pechino chieda aiuto a Mosca per fare pressioni sulla principale comunità religiosa della Mongolia, affinché il paese tagli i rapporti con il Dalai Lama e scelga un Jebtsundamba Khutuktu, un monaco buddista più vicino alla linea cinese. 

Il paese asiatico ha già conosciuto le modalità repressive della Cina, che ha chiuso i confini con Ulan Bator dopo che quest’ultima ha offerto ospitalità al Dalai Lama, in esilio in India dal 1959, in seguito alla violenta repressione della rivolta di Lhasa da parte dell’esercito cinese, che aveva occupato il Tibet nel 1950: da allora il Tibet è diventato una regione autonoma della Cina a statuto speciale, i cui governatori sono scelti direttamente dal Partito Comunista cinese. Per questo, la cessione del controllo mongolo alla Cina sul riconoscimento del leader religioso tibetano potrebbe essere interpretata come una importante perdita di sovranità.

La posizione di Ulan Bator sulla guerra in Ucraina

C’è poi il dilemma della posizione sul conflitto in Ucraina. Dallo scoppio della guerra russa, Ulan Bator è sottoposta a rinnovate pressioni da parte dei due suoi vicini autoritari per rinunciare alla sua indipendenza e formare un triangolo di cooperazione anti-occidentale. Il paese asiatico, che sta perseguendo ostinatamente un percorso di neutralità, non riesce però a sottrarsi dal ruolo di connettore energetico tra Cina e Russia.

Mosca ha recentemente festeggiato un nuovo record storico nelle forniture di gas russo alla Cina, dopo aver ridotto le esportazioni ai Paesi europei nel quadro delle ritorsioni per le sanzioni introdotte dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Lo scorso 18 luglio Gazprom ha incanalato nel gasdotto ‘Power of Siberia’ una quantità storica di gas: secondo i dati semestrali del colosso energetico russo, tra gennaio e giugno 2022 le esportazioni di gas verso la Cina sono aumentate del 63,4 per cento.

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La Russia vende alla Cina il gas proveniente dai giacimenti della Siberia orientale, mentre Gazprom sta lavorando alla costruzione di un nuovo gasdotto, il ‘Power of Siberia 2’ che attraversa il suolo mongolo: la nuova pipeline potrebbe consentire al Cremlino di reindirizzare il gas dai paesi europei a nuovi clienti in Asia. La costruzione del nuovo gasdotto inizierà nel 2024 e sarà completata nel 2030: si tratta di una pipeline lunga 2.600 chilometri che avrà una capacità di 50 miliardi di metri cubi di gas l'anno, ha reso noto il Premier mongolo, Oyun Erdene Luvsannamsrai, in un’intervista al Financial Times.

L'idea di un gasdotto transmongolo non è nuova ed è stata presentata al Mongolia all'Eastern Economic Forum del 2018. Un percorso avviato nell’arco di breve tempo. Nel 2019, con la tacita approvazione di Pechino, Gazprom e la società statale mongola Erdenes Mongol hanno avviato uno studio di fattibilità sulla tratta mongola di Power of Siberia 2, l'oleodotto Soyuz-Vostok.
 
All'inizio di quest'anno, le autorità mongole e Gazprom hanno approvato lo studio di fattibilità Soyuz-Vostok, nonostante il suo studio sia ancora in corso. La celerità delle operazioni testimoniano quanto Mosca sia desiderosa di allargare il suo bacino di acquirenti, facendo leva sulla condizione economica della Mongolia. Il paese asiatico, martoriato dalle crisi economiche, è costretto a fare affidamento sulle sue ingenti risorse minerarie per crescere e ampliare i canali commerciali verso paesi terzi. Da qui, la necessità di Ulan Bator di allontanare le eventualità di vedere i propri rubinetti chiusi dalla Russia, per ottenere gli investimenti che le servono per crescere.

A pochi giorni dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina, Erdenes Mongol e Gazprom hanno firmato rapidamente un accordo per i lavori di ingegneria e la progettazione del gasdotto, con l'obiettivo di iniziare la costruzione nel 2024. Con una capacità paragonabile a quella del progetto verso la Germania, il Nord Stream 2 (attualmente sospeso), la tratta Soyuz-Vostok è pensata per trasportare il gas dalla penisola russa di Yamal in Cina: il combustibile russo viene così privato ai mercati europei.

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Nella morsa del debito

C’è però un doppio limite. Secondo la testata The Diplomat, senza un'adeguata valutazione del progetto e il coinvolgimento di attori terzi, è probabile che la Mongolia accolga un ingente prestito dalla Russia, possibilmente a condizioni predatorie, per finanziare la sua parte dei costi, accettando al contempo di ripagare il Cremlino dai proventi delle tasse di transito del gas. Ad Ulan Bator, d’altronde, non resta che accettare i fondi (con condizioni) cinesi per rafforzare i canali commerciali tra Cina e Russia e mantenere, così, un ruolo cruciale nel progetto cinese della Nuova Via della Seta, che altrimenti potrebbe essere ricoperto dal vicino Kazakistan. 

In questo scenario, la Mongolia sopporterebbe oneri di costo pesanti ma potrebbe non essere in grado di ottenere benefici a lungo termine dal progetto, come le forniture di gas scontate. Nonostante una flebile opposizione popolare al gasdotto russo, nessuno dei partiti politici della Mongolia vuole opporsi al progetto. 

Ci sarebbero quindi poche motivazioni per credere che la Mongolia possa essere in grado di proteggersi dai rischi geopolitici e geotecnici del progetto del ‘Power of Siberia 2’. 
Come già fatto con l’Europa, Mosca potrebbe minacciare una chiusura dei rubinetti del gas per motivazioni politiche, una condizione che potrebbe aumentare ulteriormente il debito del paese (pari a 33,9 miliardi di dollari nel marzo 2022).

Ma ci sono rischi politici che arrivano anche dal Paese all'altro capo del gasdotto, la Cina. Pechino potrebbe esercitare pressioni diplomatiche sulla Mongolia ogni volta che il Dalai Lama si reca su invito dei buddisti mongoli. E così la Mongolia viene ‘schiacciata’ da Russia e Cina con il ricatto del gas e dei diritti umani. 
 


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