Opinioni

Pietà l'è morta in mare con un 17enne sul fondo di una barca di legno

Il soccorso ai 51 migranti (foto Maria Giulia Trombini/Sea Watch)

Un 17enne ha perso la vita in mare sul fondo di una barca, stipato in mezzo ad altre 50 persone a respirare le esalazioni della benzina. Al momento non si sa nulla di lui: un ragazzino senza un nome, una provenienza, una storia. Partito aggrappato alla speranza di una vita migliore, quella vita l'ha persa al largo di Lampedusa, in zona Sar (search and rescue) libica.

Allora voglio provare a darglielo io un nome, a dargli una storia degna della sua impresa: lo chiameremo Mario. Mario stava per diventare maggiorenne e, incoraggiato dalla sua famiglia, aveva deciso di lasciare il suo Paese per provare a costruirsi un futuro. Certo, salire su quella barchetta precaria gli faceva paura: ma, alla fine, ha preso un bel respiro e ha deciso di rischiare. Perché un futuro incerto era comunque più rassicurante di un presente senza futuro. E invece Mario non ce l'ha fatta.

Sapere che nel mondo esistono persone che muoiono attraversando il mare è una cosa che dovrebbe indignare chiunque. Ma in questo caso c'è una cosa che fa davvero arrabbiare: quel 17enne, forse, avrebbe potuto salvarsi. Sì perché, quando è stato soccorso dalla nave umanitaria 'Sea Watch 5' della ong Sea Watch - poco prima di mezzogiorno di mercoledì -, Mario era ancora vivo. Aveva perso conoscenza, ma respirava. Il primo messaggio che annuncia un'emergenza medica a bordo (insieme a Mario c'erano altre 4 persone intossicate e ustionate in maniera grave) parte alle 13.47. Tredici minuti dopo un'altra mail per chiedere l'evacuazione urgente di queste persone. Passano altri ventisei minuti: ancora nulla. Sea Watch invia un'altra mail con le condizioni mediche dettagliate dei pazienti, spiegando che c'è un 17enne che è stato rianimato, ma che è ancora incosciente. Mario è vivo, ma sempre più grave.

Seguono due ore di contatti con il Centro di Coordinamento per il Soccorso in Mare italiano, tedesco, maltese e tunisino. Nel frattempo, visto che nulla si muove, la nave si dirige verso nord al massimo della velocità possibile. L'Italia dice che un elicottero impiegherebbe 4 ore solo per arrivare, Lampedusa non è attrezzata, Malta non risponde. Dalla Tunisia risponde una persona che non parla inglese, poi dicono che non è di loro competenza e che i soccorritori devono coordinarsi con Roma. La palla rimbalza da un telefono all'altro. Nel frattempo i pazienti vengono stabilizzati. Tutti tranne uno: Mario, che ancora non ha ripreso conoscenza. Il tempo passa, non succede nulla. Dopo due ore da quella richiesta di evacuazione urgente, Mario muore sotto lo sguardo attonito dei suoi compagni di sventura e sotto quello arrabbiato dei soccorritori.

Eppur bisogna andar, la nave non si ferma: ci sono altre 4 persone gravi da portare in salvo al più presto. Alle 22.30, nei pressi di Lampedusa, la Guardia Costiera italiana effettua il trasbordo dei 4 migranti. Naturalmente la ong chiede di poter affidare a loro anche il cadavere di Mario. Ma la risposta è negativa: il corpo, spiegano, dovrà essere consegnato al porto assegnato, quello di Ravenna. Significa che Mario, ormai senza vita, dovrà viaggiare per altri quattro giorni. 1500 chilometri prima di trovare l'eterno riposo. I soccorritori non ci stanno: "È disumano - dicono -. Una nave umanitaria non è un ospedale, non ha una cella frigorifera". E infatti la salma di Mario è stata inserita in una busta per cadaveri e l'equipaggio deve costantemente aggiungere ghiaccio per far sì che il corpo non si deteriori. Perché i soccorritori, almeno loro, rispettano la dignità umana: lo fanno con i vivi, ogni volta che soccorrono un migrante in mare aperto. Ma lo fanno anche con i morti.

Ma c'è un'altra difficoltà: quel cadavere dev'essere tenuto all'esterno, e in questo momento il mare è molto mosso: ci sono tre metri e mezzo d'onda. In queste condizioni arrivare a Ravenna è impossibile, soprattutto con un cadavere a bordo. "Abbiamo chiesto che ci assegnino un porto più vicino, ma non sappiamo se ci ascolteranno".

Già. Chissà se almeno ora vi ascolteranno. La prima volta non l'hanno fatto, e Mario ci ha rimesso la vita. Se l'avesse scritta in questa pazza epoca di migrazioni disperate, di soccorsi ostacolati e di esseri umani lasciati morire senza pietà, forse Guccini avrebbe scritto 'Dio è morto sul fondo di una barca'. Perché qui, nel nostro Paese, la pietà cede al rancore: qui nessuno, madre, ha imparato l'amore.


Il soccorso ai 51 migranti (foto Maria Giulia Trombini/Sea Watch) 


Si parla di