Calcio

Perché la Conference League non è una "coppetta"

E' la Roma ad aggiudicarsi la prima edizione della nuova competizione varata dall'Uefa. Che ha comunque un valore oggettivo, al di là delle opportune distinzioni con Champions ed Europa league, che garantiscono più appeal e qualità

I giocatori giallorossi sul prato di Tirana con la Coppa (Foto Instagram officialasroma)

Coppetta, premio europeo di consolazione, addirittura sottoscala del calcio continentale. Ci fa tenerezza, la Conference: appena nata, per colmare un vuoto nei trofei del vecchio continentale venutosi a creare con l’abolizione della Coppa delle Coppe (riportando a tre il numero delle competizioni internazionali) e già figlia di un Dio minore, già bollata come sorella povera non solo per il minor ritorno economico dato a chi vince, ma anche per i suoi contenuti tecnici, se equiparati a quelli delle altre due bellezze di famiglia.

L’ha vinta la Roma, squadra italiana. Per gli appassionati di calcio nostrano – fatta eccezione per chi, legato a logiche di tifo, contento non lo è proprio – l’orgoglio nazionale in parte mitiga il giudizio su quella che è a tutti gli effetti una vittoria in campo europeo. Che comunque non si ottiene tirando una moneta in aria, ma attraversando un percorso che comporta superare ostacoli, magari non altissimi ma comunque in grado di far inciampare. Considerando inoltre che negli ultimi dodici anni le rappresentanti italiane, nella strettoia finale del tabellone di una coppa continentale ci sono arrivate in pochissime circostanze, peraltro senza mai alzarla (l’ultima fu l’Inter in Champions nell’anno del triplete).

“Ma il livello è comunque basso rispetto alle...altre”. Certo, ed è un dato di fatto incontrovertibile: è un trofeo riservato alle formazioni che non hanno chiuso nei primi posti i rispettivi campionati europei (perlomeno quelli di vertice), e che permette la partecipazione “multipla” delle squadre appartenenti a federazioni con il ranking UEFA più basso (l’Italia ne aveva una, la Georgia e Gibilterra tre, iscritte alle qualificazioni estive che sono state bypassate dai club più titolati), Però, una domanda sarebbe lecito porsela: siamo sicuri che la nostra Serie A possa, a pieno titolo, essere accostata agli altri campionati top europei?

Se la risposta è sì, bisognerebbe spiegare per quale motivo i top players lo snobbano (l’ultimo degno di questo nome a sbarcare in Italia è stato CR7), perché i due trofei europei più prestigiosi finiscono sempre altrove e perché negli scontri diretti con le migliori inglesi e spagnole, per citare Premier e Liga, finiamo spesso a casa a parte qualche – piacevole – eccezione. Se la risposta è no, pur convenendo che la qualità del nostro torneo è migliore di molte altre, varrebbe la pena non fare sfoggio di quella sofisticata raffinatezza nel degustare e non apprezzare un’affermazione in Conference. Siamo sempre quelli che sono usciti con la Macedonia negli spareggi per andare ai Mondiali. Fare esercizio di snobismo non sembra davvero appropriato.

“Ma una volta era diverso, erano competizioni più selettive”. Era il calcio, in primis, ad essere diverso. Sul numero, la risposta è no: tra Coppa Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa Uefa nel tabellone principale arrivavano 128 squadre (32+32+64), meno delle fasi finali di adesso con i turni preliminari ad ammucchiare – quello sì – un cospicuo numero di pretendenti alla fase a gironi (quest’anno nel primissimo spareggio c’erano anche Torshavn e Folgore, in rappresentanza di Isole Far Oer e San Marino). Una volta, c’era una rigida democrazia a governare la qualificazione, ad esempio, alla Coppa dei Campioni, riservata alla sola vincitrice del torneo nazionale: così poteva capitare che la seconda forza tedesca venisse esclusa e la Juventus pescasse al primo turno i campioni di Finlandia dell’Ilves di Tampere o quelli lussemburghese dello Jeunesse d’Esch.

Ma ad essere cambiato è più in generale il calcio. Il crollo del muro di Berlino ha aperto le frontiere del calcio dell’est europeo, cosa che sommata alla Legge Bosman ed alla crescenti disponibilità economiche dei club occidentali ha portato ad una circolazione dei migliori giocatori ma solo a senso unico, impoverendo alcuni campionati nella migrazione verso ovest, fatta alla ricerca di contratti più sostanziosi e palcoscenici più prestigiosi. E rendendo impossibile il ripetersi di exploit come quello della Steaua Bucarest e della Stella Rossa, sul tetto d’Europa rispettivamente nel 1986 e nel 1991, ma anche rari i blitz continentali di un Ajax o di un Porto del caso.

La chance di partecipare, nella logica che si applica anche i Mondiali, viene comunque data a tutti. Con le corsie preferenziali meritocratiche riservate alle nazioni in grado più alte di ranking, che poi sono anche quelle che sono in grado di offrire rappresentanti di livello qualitativo più elevato. Questo, perlomeno, in Champions ed Europa League, perché in Conference il rapporto è invece inverso: sono le federazioni meno “alte” nella classifica UEFA a poter presentare più partecipanti. Ora: nelle prime due competizioni da oltre due lustri non si vince ed i trofei scompaiono spesso nel triangolo delle bermude calcistiche Spagna-Inghilterra-Germania. Nella terza, ecco la Roma. Per cui, decidiamoci: o dimostriamo di poter aggiungere un lato a quel triangolo, o non sviliamo quanto fatto da José Mourinho e la sua squadra, che comunque Leicester, Tottenham e Olympique Marsiglia le hanno messe in riga. Va ancora dimostrato se, al momento, il calcio italiano può ambire a qualcosa di meglio.


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